Sinodo 2021-2024: a che punto siamo?

Terminata la fase continentale del processo sinodale è necessario fare il punto della situazione, a partire dal contributo ad essa offerto dalle Chiese italiane
4 Maggio 2023

Hanno destato una certa reazione, sia di approvazione che di disapprovazione, le recenti modifiche alla composizione del Sinodo dei Vescovi. Ad esso potranno partecipare e – soprattutto – votare 70 persone «non vescovi» (di cui almeno il 50% donne), ma individuate dai vescovi stessi e nominate dal Papa, in qualità di «memoria» della fase di ascolto e discernimento vissuta nelle Chiese locali e dalle loro rappresentanze nazionali e continentali. M.E.Gandolfi e E.Bianchi hanno parlato di «piccola grande rivoluzione» e di «intento veramente “rivoluzionario”», mentre A.Grillo di «evoluzione non piccola», perché essa «implica una ridefinizione, indiretta, della autosufficienza del potere episcopale (e papale) rispetto al popolo di Dio», ossia «una parziale irriducibilità del popolo di Dio alla autorità episcopale e papale», la quale viene «temperata da una esteriorità profetica irriducibile», in una sorta di «principio di “divisione dei poteri” che (…) avvicina in qualche modo il Sinodo dei Vescovi alle logiche “plenarie” del Sinodo diocesano».

Tale decisione è stata comunicata appena si è conclusa la fase continentale del cammino sinodale e dopo che sono stati resi pubblici i sette documenti corrispondenti. È tempo, allora, di riannodare le fila del processo in corso, a partire dal contributo che le chiese italiane hanno portato lo scorso marzo all’assemblea sinodale europea di Praga. Quest’autunno, infatti, ci eravamo lasciati con l’analisi del documento preparatorio alle sette assemblee continentali (DTC), condotta in rapporto a quanto emerso dalla sintesi nazionale italiana, per individuarne – come richiesto dal §106 del DTC – analogie, differenze e priorità, dal punto di vista sia delle relazioni con l’altro che delle strutture. Lo stesso lavoro di discernimento doveva essere effettuato dalle varie chiese (diocesi) locali, affinché poi le rispettive conferenze episcopali nazionali potessero offrirne una sintesi all’assemblea continentale di Praga. E così, nonostante qualche inerzia iniziale, è stato fatto. Il risultato è contenuto in un testo che sostanzialmente ribadisce quanto già espresso nella sintesi nazionale dell’estate 2022, riallineandosi però a certe tendenze emerse nel DTC – con cui si dichiara di avere una «forte convergenza», anche se non su tutto (come vedremo).

Attraverso un numero non casuale di «crediamo» (sette), viene ribadita la convinzione – «noi ci crediamo!» – con cui la Chiesa italiana ha investito le proprie energie nel processo sinodale, anche se il «protagonismo» delle Chiese locali non ha riguardato tutti (si parla di 500000 persone) e, a partire dai «vescovi», non tutti «allo stesso modo» (sia a livello di singole diocesi che all’interno di ogni diocesi). Una convinzione, comunque, attestata e confermata dalla «bellezza», «gioia» e «speranza» sperimentate in questo anno di «ascolto profondo»; dalla «forza» della rete pastorale «intergenerazionale» che si è costituita, accostando le «diverse sensibilità e competenze» ecclesiali; soprattutto, dalla «limpidezza» del sensus fidei del popolo di Dio che si è fatto latore del «vento dello Spirito», il quale, nella sua alterità, soffia quando e dove vuole (Gv 3,8). In definitiva, la Chiesa italiana si è sentita di offrire in dono alle Chiese europee, certo non un tesoro, ma almeno un “tesoretto”, riassumibile in quella frase significativa che chiude le iniziali «considerazioni di fondo»: «forse non risolveremo tutti problemi che ci affliggono, ma stiamo imparando». Stiamo imparando che «tutti devono imparare da tutti»: dagli altri e, attraverso «il primato della Parola e la centralità dell’Eucaristia», dall’Altro.

Decisivo, in tal senso, è stato il «metodo» utilizzato: se è vero che «sono alcuni decenni che, come Chiesa italiana, non abbiamo l’ascolto come abitudine» e «non abbiamo più luoghi di ascolto» (M.Ronconi), si comprende perché la «conversazione spirituale» abbia permesso ad una Chiesa ormai così poco dialogica di ricominciare ad ascoltarsi, avviando i primi passi di un discernimento più comunitario: in questo senso mi sembra ingeneroso il giudizio negativo che di «queste presunte “conversazioni spirituali”» sembra dare Enzo Bianchi quando afferma (qui) che esse «in realtà vengono richieste per nascondere i conflitti».

Non è un caso, credo, che la prima – e «assolutamente non scontata» – delle «intuizioni significative» esplicitate è risultata essere la «centralità dell’esperienza», ossia la priorità della Vita – come era stato detto altrettanto bene dalla sintesi nazionale della scorsa estate. Solo così poteva essere «ribaltato» il classico schema Ecclesia docens-ecclesia discens, secondo cui c’è una Chiesa (gerarchica) che insegna e una Chiesa (non gerarchica) che impara. Solo così poteva essere ridata «freschezza e profondità» spirituale a riflessioni, azioni e modalità comunicative ecclesiali da tempo affaticate e, forse, un po’ stantie. Altrettanto non casuale – anzi, cartina di tornasole della prima – è stata la seconda intuizione: ascoltare i «cosiddetti lontani» o «ai margini», compresi (grazie alle sollecitazioni in tal senso del DTC) i cristiani non cattolici e i credenti nelle altre religioni, ha permesso di scoprire, cioè di (re)imparare, che «nessun uomo è lontano dall’amore di Dio ed estraneo al mistero della salvezza». E siccome questo ascolto ad extra è avvenuto soprattutto grazie ai lembi del mantello ecclesiale (Mc 6,56; Mt 9,20), ossia mediante persone battezzate che già da tempo operano come Chiesa in uscita, la chiusura del cerchio di tali intuizioni non poteva che essere rappresentata dalla «riscoperta della dignità battesimale e della comune responsabilità» per il mondo e per le sfide da cui la comunità ecclesiale deve «lasciarsi scuotere».

Certo, a tal proposito, la Chiesa italiana non ha nascosto le proprie difficoltà: da un lato (quello più relazionale), essa «fatica» sia a riconoscere e far circolare i carismi (anche perché tra religiosi, associazioni e movimenti laicali ci sono più «“mute relazioni”» che «“mutue relazioni”»), sia a «dare spazio e parola» ai giovani, anche solo attraverso chi già opera con loro; dall’altro lato (quello delle «rigidità» strutturali), vi sono ad ogni livello ecclesiale «modi di intendere l’esercizio dell’autorità troppo verticistici», tradendo così «il compito di coinvolgere e di valorizzare l’apporto di tutti», soprattutto «quando una cosa riguarda tutti». Senza dimenticare quanto sia ancora importante lavorare affinché «la religiosità popolare» riesca effettivamente ad evangelizzare la vita quotidiana di coloro che la praticano.

Da qui derivano le «priorità» evidenziate dalla Chiesa italiana all’interno di un’ottica comunitaria «più agile e più prossima, centrata sul Vangelo»: «la qualità delle relazioni», «il dialogo con le culture», «la ministerialità della Chiesa e (…) nella Chiesa», « il compito e l’identità del presbitero da ripensare in una Chiesa “tutta ministeriale”», «la corresponsabilità (in una prospettiva non funzionalistica)», «il ruolo delle donne», «l’educazione alla fede e la formazione vocazionale, permanente, di tutte le componenti del popolo di Dio».

Sono assenti in questo contributo della Chiesa italiana alcuni accenti che, invece, erano stati posti nella sintesi della scorsa estate: il rafforzamento o la riattivazione degli organismi di partecipazione (e decisione), la condivisione e la trasparenza delle informazioni e delle procedure di nomina, l’elaborazione di una spiritualità sinodale. Mentre continuano a mancare altri aspetti che il DTC aveva messo in evidenza o che non erano stati messi in evidenza neanche dal DTC: nel primo caso, il confronto aperto con le tensioni e i conflitti emergenti (ad es. quello sulla messa preconciliare), l’esistenza di un “prezzo” da pagare per questa conversione ecclesiale, la crisi di fede o di appartenenza ecclesiale del genere maschile rispetto a quello femminile; nel secondo caso, l’importante ruolo sinodale che hanno avuto le figure educative (insegnanti, allenatori sportivi, maestri di musica), quelle del volontariato e quelle che, più in generale, già accolgono, si confrontano ed elaborano atteggiamenti pastorali e linguaggi teologici includenti le persone che per vari motivi si sentono fuori – o sulla soglia – della Chiesa.

Ciò nonostante, resta ferma la consapevolezza che, ex parte Dei, «se certi temi ritornano con tanta insistenza vuol dire che su di essi lo Spirito ci sta chiedendo di metterci in gioco per essere Chiesa secondo il sogno di Dio»; mentre, ex parte hominis, «si tratta di (…) priorità da non lasciar cadere e sulle quali continuare a lavorare, perché diventino l’ordinario delle nostre comunità. Ciò che si è sperimentato e raccontato è anche ciò che ci si aspetta». Si può quindi concludere condividendo quanto afferma M.Ronconi nel rivolgersi idealmente ai nostri pastori: «non fate l’errore di non cambiare niente perché altrimenti si crea quell’aspettativa» che «è non solo frustrante ma anche controproducente».

 

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