Rieti,la suora e il suo bambino

E’ davvero cristiano mettere distanza rispetto ad un pubblico peccatore che mostra di voler ri-continuare sulla strada della fede?
19 Gennaio 2014

Quando succedono cose del genere sono preso da un senso di conflitto. Da un lato, d’istinto, vorrei lasciar cadere la questione. Siamo tutti peccatori e non abbiamo certo bisogno di “amplificarne” la voce. Dall’altro so che i miei studenti non mi lasceranno in pace, e didatticamente so che sarà un’occasione da non lasciar cadere per poter parlare di alcune cose belle che, attorno a questa vicenda, diventeranno certamente domande nelle loro voci. 

Perciò non posso evitare di informarmi un po’ meglio sulla suora di Rieti che è diventata mamma. Infatti, spesso la concretezza dei dati è la guida più sicura per fare “verità” sulle cose. E nel fare questo, incontro alcuni piccoli dettagli che attirano la mia attenzione e che danno spazio al mio “demone” interpretativo.

Il parroco della parrocchia Regina Pacis di Rieti, don Fabrizio Borrello, nel commentare l’episodio dice tra le altre cose: “Il bimbo che ha dato alla luce è una creatura di Dio, e ci vuole rispetto per la vita umana. Il Papa per primo ci ricorda che, al di là degli errori, la dignità delle persone va rispettata”. Non ho trovato, ovviamente, nessun accenno a questo sui siti di grande divulgazione e sui giornali più diffusi (mentre è riportato dal Fatto Quotidiano). 

Credo che per un cristiano dovrebbe essere molto più rilevante questa attenzione al bimbo che è nato, che non alla suora che lo ha partorito. Perché la sottolineatura del bene, per noi, dovrebbe avere sempre uno spazio maggiore di quella del male. E voglio sperare allora che una parte della reazione della madre superiora, comprensibile sul lato umano, possa diventare diversa: “ci ha mentito e qui non tornerà”. Ok, non tornerà come suora. Ma come donna di fede che appartiene a quella Chiesa? Come madre che chiederà il battesimo per suo figlio? E’ davvero cristiano mettere distanza rispetto ad un pubblico peccatore che mostra di voler ri-continuare sulla strada della fede? Eppure in questi giorni la reazione più diffusa che ho registrato da parte di molte persone di fede, soprattutto se con qualche livello di responsabilità nella Chiesa, è sempre improntata alla presa di distanza etica da questa suora. Ma davvero la prima preoccupazione dovrebbe essere questa?

Secondo dettaglio. Il vescovo di Rieti, Mons. Delio Lucarelli, dopo lo stupore e, ovviamente, la precisazione sul lato etico e giuridico (!) della vicenda aggiunge: “La Diocesi si prenderà cura della donna, almeno per i primi tempi”. La mia speranza è che si possano aggiungere anche i secondi tempi, ma sicuramente è già una bella promessa, che mi auguro sia davvero mantenuta. Perché troppo spesso mi è capitato di vedere preti che hanno “abbandonato” per debolezze umana, dimenticati completamente dalla loro diocesi e che spesso hanno fatto davvero fatica a ritrovarsi anche e soprattutto come uomini. 

Ma non ci viene chiesto di distinguere sempre tra peccato e peccatore? E non era forse Gesù che, a differenza dei detentori del potere religioso ebraico, aveva un rapporto tutto speciale coi peccatori? Una intera esperienza comunitaria ecclesiale, quella nata attorno alla pieve di Romena, nell’aretino, si centra proprio sul recupero di persone che hanno “sbagliato”, e che nel mezzo della crisi vedono aprirsi spazi di risurrezione che li portano spesso ad essere molti migliori di prima. Questa suora e donna, avrebbe infatti una opportunità straordinaria di ricomprendere sé stessa e di solidificare il fondamento della sua fede e della sua vocazione, se qualcuno la aiutasse in questo cammino. Perciò, oltre al senso economico dell’aiuto promesso dalla diocesi, spero davvero ci sia anche il senso umano e spirituale.

Ecco appunto. Proprio in nome di questo binomio, umano e spirituale, che non può mai essere spezzato in un serio percorso di fede, mi colpisce il terzo dettaglio. La madre superiora e alcune consorelle dichiarano: “Non ci siamo mai accorte di nulla. Come potevamo pensare ad una cosa del genere”. Ora, pur con tutte le attenuanti del caso (l’abito che copre molto, una comunicazione comunitaria fatta soprattutto su livello un mentale e spirituale, il “non essere del mondo” del convento), in tutta onestà faccio fatica a non spiegarmi questo commento se non con una profonda e tragica “svista sull’umano” di questa suora, da parte della sua comunità.

E allora però come si fa a non chiedersi qualcosa su come sono strutturati i percorsi di formazione vocazionali, soprattutto in rapporto alla dimensione umana di chi li percorre? Ma crediamo sia davvero possibile far crescere una vocazione di speciale consacrazione in una persona, senza un’attenzione al suo mondo emozionale ed affettivo, alla cura del proprio corpo come dono Dio? Anni fa mi stupì, positivamente, una suora, che in un incontro coi noi giovani dichiarò candidamente che pure lei si depilava le gambe si curava le sopracciglia. Forse qualcuno storcerà il naso su questo, ma quella suora aveva una capacità di comunicazione umana che non ho trovato spesso in giro tra i consacrati. Sarà un caso?

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