Quando perdonare significa tornare alla vita

La Giornata della Memoria può essere anche l'occasione per tornare a riflettere su quanto il perdono significhi ritornare in vita.
27 Gennaio 2021

Ho avuto occasione di conoscere Cesare Israel Moscati nell’ambito di un suo progetto per le scuole superiori in cui si facevano incontrare i nipoti delle vittime dei campi di concentramento nazisti con quelli dei loro aguzzini, con conseguente richiesta di perdono da parte dei nipoti dei soldati tedeschi. Interrogato da me sul percorso che porta a concedere il perdono, il registra ebreo con veemenza, mi rispondeva: “Mai! Professore, si possono accettare le scuse, si può accogliere il riconoscimento del male prodotto ma non si potrà mai e poi mai perdonare quel che la Shoà ha provocato!”. Recentemente, registro con estremo rispetto l’ammissione della stessa posizione da parte della senatrice Liliana Segre: “Non perdono e non dimentico, ma non odio” (qui)

Ritengo che l’annuale Giornata della Memoria sia una occasione importante non solo per riflettere sugli eventi della Shoà ma anche per riconoscere tutti quei genocidi dimenticati e taciuti che si sono verificati e continuano a verificarsi in varie regioni della Terra. Tali drammi divengono una occasione per una riflessione sulle dinamiche che portano a confrontarsi, nell’ambito dei percorsi per la ricostruzione delle vite dopo le violenze subìte, sulla possibilità di realizzare reali processi di perdono.

È chiaro che, se è vero che il perdono lo si può chiedere ad una collettività – ad una pluralità di persone offese da un delitto –  e se nella storia non son mancati esempi significativi a riguardo (ritengo una pagina straordinaria quella proposta da Giovanni Paolo II con la Purificazione della Memoria), è pur vero che l’atto del perdonare e di concedere il perdono, prima che un atto giuridicamente normato (amnistia , grazia ), è e rimane un atto il cui soggetto è l’individuo singolo e le cui dinamiche possono essere riconosciute, come ricordava Hannah Arendt, profondamente umane.

Parlando di perdono, balza alla mente la domanda di Pietro: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18, 21-22). La risposta suggerisce che non ci debba essere un limite nella disponibilità a perdonare. La parabola esplicativa illumina sulla consapevolezza di essere in debito più di quanto si possa ritenere di essere in credito (Mt 18, 23-35). Indubbiamente, il messaggio cristiano si colora di un proprium che lo caratterizza in maniera innegabile: uno dei cosiddetti ipsissima verba è proprio l’invito di Gesù a l’amore per i nemici (Lc 6,27-38).

Ma fino a che punto è possibile perdonare per il male subìto? Forse si sarebbe disposti a farlo se siamo noi le vittime. Ma se le vittime sono i nostri cari o persone innocenti, la cosa diventa più pesante. Ed è possibile perdonare una persona che ha levato la vita a tuo figlio? Questa domanda, netta, tagliente, impietosa, è quella che io pongo ai miei studenti dopo aver proposto loro la visione del film Dead man walking (1995), ispirato alla vicenda di suor Helen Prejean.

Il tema del film è, prima di quello del perdono, dei molteplici percorsi di “riposizionamento”, di “trasformazione”, di “conversione” dei suoi protagonisti: dalla suora, che parte con le migliori intenzioni nello svolgimento della sua “missione” ma deve scontrarsi con una realtà più complessa di quanto possa apparire e fare i conti con i suoi limiti e le sue debolezze; all’assassino, che partirà dal suo attaccamento a una vita senza alcuna dignità, macchiata dalla bruttura per la mancanza di ogni “timor di Dio” e di alcun rispetto verso il suo prossimo (egli si sente “vittima del sistema” e in diritto di rivalere un suo “credito” verso la società) fino ad una vera e propria conversione finale, che gli permette di tornare ad essere un uomo veramente libero, nell’atto del riconoscere e confessare la verità del male compiuto e di chiederne perdono.

Soggetti centrali, sono proprio i genitori delle vittime. Con due esiti diversi. Quello di chi rifiuta ogni possibilità di perdono, anche nell’epilogo che precede l’esecuzione capitale; il pretendere e cercare la vendetta, lascia però aperta una domanda, che per l’osservatore attento appare retorica: potranno trovare la pace i genitori delle vittime una volta che il loro lutto sarà vendicato col sangue? Evidentemente no. Perché – la rappresentazione dei protagonisti filmici lo suggerisce – la rabbia, il rancore, l’odio, una volta eliminato violentemente l’autore del male subito (che egli abbia riconosciuto la sua colpa o meno), difficilmente potrà cedere il posto ad una vera pace; sarà piuttosto un tragico sentimento di disperazione: quello di chi conserva il suo lutto e inoltre non ha più tra le mani il soggetto che lo ha provocato.

Perché dunque il perdono potrebbe essere, davvero, un percorso liberante e rivitalizzante? C’è un testo magistrale illuminante, quello di Giovanni Paolo nel II suo messaggio per la XXX Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 1997: Offri il perdono, ricevi la pace. Il perdono vero non va né contro la verità né contro la giustizia. Le pretende. Non può prescindere da esse. Questo l’insegnamento biblico, questo il dettame della teologia morale cristiana. Il vero perdono si oppone al rancore, alla rabbia, all’odio, al desiderio di vendetta, al rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alla prevaricazione con le ragioni della forza.

Naturalmente, la via della non-violenza, la beatitudine degli operatori di pace, la liberazione che solo nella verità e nella giustizia si compie nell’atto sovra-umano e ultra-umano del perdono è una possibilità che va al di là ed oltre ogni umana prospettiva, perché la risposta alla domanda: “si può perdonare chi ti ha ucciso un figlio?” è umanamente: “Mai!”. Nel film tale percorso è assunto dall’incontro della suora con il padre di una delle vittime, e si ammette che quello del perdono non è un evento puntuale, non si riassume in una dichiarazione ma è un lento e faticoso cammino di conversione e di assunzione di consapevolezza. Ricordo come ieri una testimonianza toccante, trasmessa da un giovane angolano davanti a Giovanni Paolo II e i due milioni di giovani alla GMG a Tor Vergata il 19 agosto del 2000: il perdono per gli uccisori del fratello sindacalista come unica strada alternativa alla via della violenza della guerra civile.

Se vogliamo, una parola illuminante è proprio quella espressa dal figlio dell’uomo sulla croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Da dove viene il male che ciascun uomo compie in maniera efferata, fino ad arrivare all’omicidio? L’etimologia del termine “cattivo” (captivus = “prigioniero”) e il messaggio di Gv 8, 34 (chi entra in abitudini distruttive ne diviene dipendente) si agganciano proprio alle parole elevate dalla croce: se l’uomo potesse avere la consapevolezza di quali saranno le conseguenze di ogni sua azione di male (od omissione di bene, nda) ci penserebbe non una ma mille volte. Per questo solo la verità, l’ammissione in coscienza del male provocato e la richiesta/concessione del perdono diventano una strada liberante e rigenerante. Per chi la chiede e per chi la dà.

 

 

5 risposte a “Quando perdonare significa tornare alla vita”

  1. Paola Meneghello ha detto:

    Se davvero vogliamo il Bene e non il male, dobbiamo mparare a perdonare per non cadere nello stesso vortice di odio e risentimento.
    Perdonare non significa non ricordare o sminuire il dolore e le responsabilità, ma voler superare il male, per non rimanerne imprigionati, e cambiare verso per davvero, non a caso il cristiano parla di conversione, cioè di cambiamento di mentalità, che riguarda innanzitutto ognuno di noi…certo non ci sembra umano, neanche normale, perdonare chi ha fatto tanto male, ma l’esempio di Gesù non era certo rassicurante, e forse quella spada a cui alludeva, era anche metaforica dela vera Forza necessaria per poter cambiare verso, quando tutto sembra andare nella direzione opposta. .

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    …Si fa memoria perché non vada dimenticato, giusto, ma il Perdono, qui che tanto si invoca, in altri casi vuol dire voltare pagina, riprendere serenamente la vita nell’interesse reciproco perché nessuno è perfetto e si può sempre sbagliare; ma quello che sappiamo essere avvenuto per certo popolo, per ogni popolo che è stato oggetto di distruzione di massa, va oltre la ragione umana, anche a persarlo a distanza di generazione, quel Perdono lì solo Dio lo rende possibil. Certo si torna a ricostruire quello che è stato demolito, a rimuovere odio a riprendere il voler bene alla vita, ma credo non si possa lenire quel dolore perché non ha giustificazione per una di quelle vittime.Anche Maria a vedere il Figlio così deve averlo provato. Ma oggi, casi di singole atrocità sono cronaca e sembra quasi non turbi. tanto le comunità, si uccide pare con qualcosa di approfondire perché ci fa pensare ancora “se questo è un Uomo”.

  3. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Si, serve perdonare, capita tutti i giorni per malintesi, per screzi, per antipatie che sorgono, 70×7 altrimenti non si potrebbe recuperare un minimo di serenità, altrimenti si diventa scorbutici, intrattabili. Ma parlare di perdono per certi fatti come la Shoah, ecco e altra la forma del perdono, c’è lo ha lasciato percepire detto le vittime sopravvissute a quell’eccidio, così come di altri analoghi ancora più recenti, messi in silenzio tanto costa dolore e recrudescenza da evitare per amor di volere la Pace. Allo Yad Vashem a Gerusalemme si entra con uno spirito preparato, ma si esce senza parole, la la fiamma che arde è tutto il dolore che si suppone arda nel cuore di sopravvissuti. Non si può lenire quel dolore , con nessuna parola eccetto provare pudore a pronunciarla ma solo concedere comprensione con il silenzio.

  4. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Non mi risulta che ci sia stata una vera ammissione del MALE provocato da un Eichmann&soci.
    Non mi risulta che x Kassogi o x Solimani o x Regeni.. ma non mi basta qs pagina.
    No. Non libera x niente quanto fatto il ‘perdono’ delle vittime. Mi disturba il cronista che chiede a chi ha perso un figlio ” Cosa prova….?”
    Non c’è pace senza giustizia (JPII).
    Quanta ingiustizia oggi nel mondo??
    OGGI, non ieri.

    • Alessandro Manfridi ha detto:

      Salve Pietro.
      perdonare, come ricordo nell’articolo, è un atto sovra-umano e ultra-umano.
      In Lc 6 i seguaci di Cristo sono da lui invitati, addirittura, ad amare i loro nemici.
      Come detto, il perdono autentico non può prescindere dalla esigenza che sia riconosciuta la verità e la giustizia.
      È chiaro che nessuno può ripagare il prezzo di una vita soppressa, tantomeno di un genocidio.
      È necessario, lo condivido, essere indignati e adoperarci per le ingiustizie planetarie che OGGI si consumano a danno dell’umanità e in sfregio a qualsiasi memoria degli orrori prodotti nel corso della Storia.
      La via e la possibilità del perdono è comunque una pagina liberante per chi è stato vittima di lutti e soprusi.
      La visione del film è molto illuminante a riguardo.

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