Perché il dramma non c’è più?

Una riflessione sui presepi troppo rasserenanti, che fanno sentire in paradiso e dimenticare che la lotta con il male non è finita
4 Gennaio 2014

CHE FIGURA!

In questi giorni di classifiche delle cose più mirabili e memorabili del 2013, in cima alla lista dei presepi metto quello della parrocchia dell’Immacolata, a Ferrara. Che non ha niente di speciale, all’infuori di una presenza ignorata dalla maggior parte dei presepi: la città arroccata sul colle. Presenza che sarebbe meglio chiamare assenza, vista la sua distanza dalla grotta della Natività. Perché la città se ne sta sulle sue, impermeabile all’odore delle pecore e degli immigrati, piena di luci e di sé. Immagine inquietante, capace di evocare un brano di Vangelo riascoltato da poco: il prologo di Giovanni (1, 9-11), dove si parla del fatto che «veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto». E poi un brano che riascolteremo presto, il giorno dell’Epifania: il racconto dei Magi, in cui si accenna al re Erode che «restò turbato e con lui tutta Gerusalemme» (Mt 2, 3). Per cui la città del presepe ferrarese potrebbe essere tanto Betlemme quanto Gerusalemme.

Affinché non salti su qualcuno a rivendicare diritti di primogenitura, giova ricordare che, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, nella chiesa romana di Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini raffigurò alle spalle dei Magi una città. O, forse, il palazzo di Erode. Con la stessa volontà – del presepe ferrarese – di non nascondere il dramma. E al contrario dei presepi odierni, che, non mostrandolo, rischiano d’essere dolci come miele. Già: non sono, i nostri presepi, troppo accattivanti, troppo belli, troppo ruffiani? Preoccupati di far sognare o di farsi dire «Che carino!», più che di suscitare un pensiero?

Eppure Gesù è stato spregiudicato nell’uso delle immagini. Non cercava sempre quelle piacevoli e morbide, che non urtano, ma si serviva anche di immagini “brutte, sporche e cattive”, facendole valere soltanto in funzione dell’aspetto che gli interessava. Per dire «Fatevi furbi», ha utilizzato un amministratore disonesto (Lc 16). Per dire «Fatevi ascoltare», ha nobilitato persino i rompiscatole, un amico e una vedova (Lc 11 e 18), che – se non altro per sfinimento – sono riusciti a ottenere ciò che chiedevano. Per dire «Fate attenzione, state svegli», non ha avuto paura di accostarsi a un ladro (Mt 24). Né di far riferimento ai giorni di Noè, pur di dare l’idea che la venuta del Figlio dell’uomo sarà imprevedibile e travolgente come il diluvio.

In uno dei mosaici del duomo di Monreale, possiamo vedere Noè accogliere la colomba che porta nel becco «una tenera foglia d’ulivo» (Gen 8). Mentre più in basso, a pelo d’acqua, un corvo sembra cibarsi dei cadaveri degli annegati. Diciamo la verità: se fossimo chiamati a rifare l’opera, non sceglieremmo forse un’inquadratura ravvicinata di Noè e della colomba, scansando il corvo e gli annegati? Non faremmo un Noè sorridente sotto l’arcobaleno? Però, senza relazione con la tragedia, faremmo apprezzare di meno la pace e l’armonia ritrovate. E la salvezza.

La sera dell’11 ottobre 2012, a 50 anni dall’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, Benedetto XVI ha pronunciato un discorso in apparenza lontano da quello “della luna”, fatto 50 anni prima da Giovanni XXIII. Per ricordare che la nuova primavera della Chiesa, la nuova Pentecoste, deve comunque fare i conti con il peccato, con la zizzania, con i pesci cattivi nella rete di Pietro, con la fragilità, con i venti contrari… E a taluni è sembrato sgradevole, nonostante Papa Ratzinger abbia aggiunto che «il Signore non ci dimentica». E «dà calore ai cuori, mostra vita, crea carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio».

Non può essere che papa Francesco avesse in mente il suo predecessore, quando ha invitato a cogliere la differenza tra i pastori e i pettinatori di pecore?

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