Maria di Betania: e chi la conosce?

Eppure ricordare al mondo ciò che fece è un compito affidato da Gesù agli evangelizzatori...
31 Maggio 2013

CHE FIGURA!

Se non sembrasse un giochino da rivista frivola, o se avessi più coraggio, mi piacerebbe proporre a un fratello nella fede di raccontarmi un brano di Vangelo, a partire da un’opera d’arte.

Come un bambino che richiede una storia, anche se la sa, confesso il mio piacere a contemplare la fede altrui per rafforzare la mia. E trovo stimolante che un’opera d’arte possa fare da spalla al Vangelo: realizzando già lei la messinscena, ha soltanto bisogno di parole d’accompagnamento che guidino l’interpretazione.

Il bello del racconto è come riesca a emozionare e a scaldare il cuore, toccando corde non sempre raggiungibili dalla sintesi di un catechismo. E pazienza se tocca pure vette di comicità involontaria. A Roma, a San Luigi dei Francesi, davanti alla Vocazione di Matteo di Caravaggio, ho sentito un padre ricreare per il figlio il dialogo tra Gesù e Levi, mettendo in bocca all’apostolo un improbabile «Che? Ce l’hai con me?». E a San Saba, davanti al paralitico di Cafarnao invitato a caricarsi del lettuccio e a tornarsene a casa, le parole di Gesù sono diventate: «Dàmose da fa’. Su, bbello, fa’ quarcosa anche te». Che mi sembra una traduzione fantastica, molto pertinente.

Il problema è che l’arte non ci restituisce tutto il Vangelo, che ci sono personaggi spariti, dimenticati dagli artisti e forse anche dagli evangelizzatori: Maria di Betania – di cui parlano Matteo, Marco e Giovanni – è tra questi “non pervenuti”. E dire che Gesù ci aveva investito di un incarico preciso e che solo per lei s’era mosso con parole tanto solenni: «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto».

Ultimamente l’ho ritrovata in tre opere antiche, non d’autore, che tengono insieme due episodi della vita di Gesù: la risurrezione di Lazzaro e la profumazione dei piedi di Gesù da parte di Maria. Per cui non si può ricordare l’una senza menzionare l’altra. Sono tratte da un sarcofago paleocristiano (prima metà del IV sec.), dal Dittico milanese delle cinque parti (fine del V sec.) e da uno degli affreschi della chiesa di S. Angelo in Formis, vicino Capua (seconda metà dell’XI sec.).

Non sono certo le uniche opere a riportare i due momenti insieme. Ma ciò che mi piace notare, più ancora della presenza di Maria di Betania, è il suo legame con la storia precedente. Che dice la predisposizione di alcune opere a raccontare, collegando più momenti e facendoli capire meglio.

In altre epoche, artisti anche di fama (Giotto, Duccio, Beato Angelico, Sebastiano del Piombo ecc.) hanno raffigurato la risurrezione di Lazzaro. Spesso con attenzione ai dettagli, ad esempio mostrando gli astanti nell’atto di turarsi il naso (Marta, la sorella di Lazzaro, aveva detto a Gesù: «Manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni»). Ma tralasciando ciò che avviene subito dopo: Maria che profuma Gesù con 300 grammi di puro nardo («Ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo»).

Non hanno capito, gli artisti celebri, che, nonostante siano avvenute in luoghi diversi, le due scene sono inscindibili. Perché non si può slegare questo profumo da quell’odore di morte che s’era attaccato alle narici. L’omaggio di Maria non è casuale e verrebbe da dire che, se la risurrezione la opera Gesù, la completa Maria di Betania col suo dare gloria a Dio. Col suo grazie esagerato, non capito da nessuno.

Non risparmia, infatti, né in quantità né in qualità, per essere all’altezza dell’amore senza misura di Gesù. E, anziché regalargli un flacone di profumo (come faremmo noi borghesi), Maria rompe il vaso di alabastro perché tutto l’estratto costosissimo copra il suo Signore, da capo a piedi. “Sprecando” 300 denari… «che si potevano dare ai poveri», eccepisce Giuda, proprio lui che, fra poco, svenderà Gesù per 30 (altra relazione che sarebbe interessante veder rappresentata da un’immagine).

Troppo abituati a vedere Gesù come una mostra fotografica, perdiamo delle connessioni importanti. Che invece il racconto tiene in piedi (e anche l’arte, quando ci si mette). Giusto un esempio, in Matteo 19 e 20, che potrebbe avere come titolo “Quelli che non capiscono il gratis” o “I primi della classe”, perché Gesù ha a che fare con persone che sanno d’essere brave ma che credono nella meritocrazia più che in Dio e, se si danno da fare, è in vista di un guadagno («Che devo fare per avere…?»). Anzitutto il giovane ricco (il primo a non aver capito niente), che se ne va triste perché si scopre capace di osservare tanti comandamenti ma incapace di donare. Poi Pietro (il secondo a non aver capito niente), a cui viene naturale domandare: «Noi, invece, che abbiamo lasciato tutto… che cosa ne avremo?» (la solita ossessione del premio). Rispondendo «Cento volte tanto e la vita eterna in eredità», Gesù sembra dargli soddisfazione. Ma un attimo dopo spiazza Pietro mettendosi a raccontare la parabola dei lavoratori a giornata, con il padrone della vigna che dà a tutti lo stesso compenso, anche chi ha lavorato un’ora soltanto (e senza essere ingiusto con chi ha lavorato per tante ore, perché quella era la cifra pattuita dall’inizio). Infine la madre di Giacomo e Giovanni con i due figli (i terzi a non aver capito niente): sebbene Gesù abbia appena annunciato l’imminenza della sua passione, morte e risurrezione, costoro gli piombano davanti a chiedere i posti migliori («che siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno»).

Sogno degli artisti – anche di cinema e di teatro, non solo pittori e scultori – che mi sappiano restituire questi link.

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