Ma ce lo chiede Dublino?

Se “l'insegnamento della Chiesa non è espresso con le parole dell'amore vuol dire che stiamo sbagliando”
1 Giugno 2015

Ma ce lo chiede Dublino?

 

Poche ore dopo essere stato a messa nel giorno di Pentecoste, trovo qui (link al post “Il bagno di realtà”) le parole che da Dublino, il Vescovo Martin ci lascia sul “famigerato” referendum. E, per chi come me vive in mezzo ai giovani, le domande del Vescovo sono, già da tempo, un’inevitabile riflessione. La cosa che mi colpisce di più, perciò, non sono le sue affermazioni. Ma il fatto che queste osservazioni, queste domande, vengano allo scoperto in relazione all’esito di un referendum. Ma davvero ce lo chiede Dublino di interrogarci se “ci siamo allontanati del tutto dai giovani?”. Ci voleva un 62% per riconoscere che “nella Chiesa la gente non ha ancora piena consapevolezza di ciò che è in gioco?”.

Credo che per chi è abituato a frequentare un po’ il Vangelo la risposta sia chiara: ce lo chiede la fede, non Dublino! Il primo effetto della presenza dello Spirito è quello di renderci capaci di “parlare in altre lingue”. La Chiesa esiste e ha senso in questo mondo per essere “sale”, ma se perde il sapore non serve più, cioè se non è più percepibile, se non è più ascoltabile, “viene gettata via”. Perciò “trovare un nuovo linguaggio che sia essenzialmente nostro, ma allo stesso tempo parli, sia compreso e possa essere anche apprezzato dagli altri”, non è un “optional” per la Chiesa, ma la sua stessa missione!

E allora invece di continuare a ragionare e dividersi sul commento del Vescovo sarebbe molto più importante provare a tentare di dare risposte alle domande di quel commento. Io ci provo, mettendo qui quel che posso.

1) Abbiamo bisogno di una nuova antropologia. Come Chiesa dovremmo comprendere che il terreno di coltura su cui è cresciuto lo svuotamento del valore della natura umana concreta, e su cui si è generata l’ideologia Gender, lo abbiamo creato noi. Con 17 secoli di antropologia in cui l’essenza dell’uomo è stata progressivamente svuotata della sua “corposità creaturale” che aveva nella bibbia e nei primi tre secoli della tradizione cristiana, e identificata prima con il suo spirito, poi con la sua anima, poi con la sua coscienza. Una pura astrazione. Senza un “genere”, senza una carne. In cui il corpo è solo un puro strumento. E, perciò, in cui la coscienza, una volta tolto di mezzo Dio, può fare del proprio corpo ciò che crede. Anche decidere che l’anatomia sessuale non conta. Perciò non serve a nulla lamentarci di questo. O recuperiamo il valore teologale del corpo, o perderemo molti altri referendum.

2) Abbiamo bisogno di accettare sul serio che la percezione dello spazio – tempo è cambiata. Nella Chiesa si presuppone ancora che la vita e il senso che la fede conferisce ad essa, esistano solo se percepiamo lo spazio come reale e il tempo come virtuale: il radicamento in una comunità locale, e un progetto di vita che guarda al futuro. L’uomo post-moderno invece percepisce il tempo come reale e lo spazio come virtuale: vale solo l’istante, il presente, e il radicamento è nelle “community” delle relazioni virtuali. E noi immaginiamo che in questo modello l’incontro con Cristo sia impossibile. Eppure, se guardo Pietro, Paolo, la Maddalena e gli altri, vedo che accedono alla fede non come esito del loro radicamento in una comunità locale e nemmeno come “soluzione” al loro progetto di vita. Ma dall’incontro con Cristo, che, anzi, chiede loro di uscire dal radicamento ebreo e di sospendere il loro progetto di vita, dando a Lui carta bianca sulla loro vita.

3) Abbiamo bisogno di un’etica fondata sul desiderio e non sul dovere. La fede cristiana chiede un “amore ordinato”. Oggi viviamo un “amore disordinato” o, anche più spesso, un “disamore disordinato”. Molti nella Chiesa sembrano convinti che per prima cosa, per educare credenti autentici, si debba puntare sull’ordine etico. E che questo poi sia in grado di generare amore. Ma, anche qui, chi frequenta un po’ il Vangelo, sa che Cristo si comporta esattamente a rovescio. Che sempre, ogni volta che incontra una persona, la prima cosa che fa è amarlo, indipendentemente dall’ordine etico che questa vive, per riattivare in lui il desiderio di amare. Solo dopo chiede una conformazione etica sulla base dell’amore. Ma noi spesso continuiamo a predicare per primo, solo il Cristo del dovere. Su questa strada non parliamo più a nessuno! Se non a quelli che temono il desiderio.

4) Abbiamo bisogno di imparare che cambiare linguaggio non è solo un’operazione esterna alla fede, ma che ci spinge a riorganizzare il nostro modo di vedere la fede e la relazione con Cristo. Non serve a nulla “rivestire” un’antropologia spiritualista e un’etica del dovere con lustrini, “cotillons”, video clip e chat. L’uomo post-moderno non ci casca! Se “l’insegnamento della Chiesa non è espresso con le parole dell’amore vuol dire che stiamo sbagliando”. E le parole dell’amore vengono da un cuore innamorato di Dio e dell’uomo. Da un cuore che ascolta il proprio corpo e dentro a questo sa leggere, anche con la testa, ma non solo, lo Spirito che gli parla. La trascendenza non si riapre più guardando in alto, ma guardando dentro, la dove Lui ci abita e dove il fratello ci interpella.

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