L’autoritratto di Benedetto XVI

Nel momento in cui lo stemma del pontificato è stato rimosso per sempre dalla finestra dell'Angelus e dalle chiese del mondo, forse ho cominciato a capirlo
8 Marzo 2013

CHE FIGURA!

Abituato, per mestiere, a fare loghi, non ho mai dato troppo peso allo stemma di Benedetto XVI. Vero è che non mi occupo di araldica, ma quello stemma m’era sempre parso eccessivo. Troppo ricco. O, forse, troppo poco sintetico (nulla a che vedere con quello, brutale, di Giovanni Paolo II, con la croce e la M di Maria che schiantavano ogni altra immagine).

E poi – la dico tutta – anche troppo tradizionale, troppo lezioso, troppo pretenzioso. Soprattutto troppo carico della storia personale del pontefice: va bene che uno metta ciò che più gli è caro (come le foto ricordo sulla scrivania), ma quel moro incoronato, con tanto di orecchino, quell’orso con la sella e quella conchiglia avevano bisogno di troppe parole di spiegazione. Ognuna era una storia a sé stante e in un logo, pensavo, non è possibile raccontare una storia. Tanto più tre, due delle quali di origine bavarese. Quella, appunto, del moro di Frisinga, legato – sembra – alla tradizione che ritiene etiope uno dei magi (le reliquie dei quali vennero portate da Milano a Colonia). Poi la storia dell’orso di S. Corbiniano (simile all’orso trentino di S. Romedio), che, avendo sbranato il mulo del santo, viene ammansito e comandato di caricarsi dei pesi del mulo. Infine la storia di S. Agostino, che, dopo aver visto un bambino tentare di svuotare il mare con una conchiglia, comprende quanto sia assurda la pretesa di capire l’infinità di Dio.

Insomma… «troppi significati, nessun significato», era la mia opinione su quello stemma. Che già avevo confinato tra i “loghi comuni”, quelli che lasciano il tempo che trovano.

Soltanto adesso, dopo il gesto stupendo di un vecchio che si alza dalla sedia per lasciare il posto a un giovane, ho scorto un legame fra le tre figure. Perché sono una persona, un animale e una cosa, unite dal fatto d’essere inadeguate al ruolo loro richiesto. Su, s’è mai visto un nero che in Germania è re? Che c’azzecca con la storia tedesca, con i suoi giovani biondi e ariani? E, foss’anche uno dei magi, perché scegliere proprio il più diverso, il più lontano, il più improbabile? E dell’assurdità di un orso che fa la bestia da soma, vogliamo parlare? E dell’inconsistenza di una conchiglia, che riesce a contenere ben poco?

Però – grazie alla fede – queste tre anomalie, o insufficienze, o debolezze, possono diventare forze. Perché quell’uomo nero, per aver voluto guardare Gesù bambino e lasciarsi guardare, è ora simbolo dell’universalità della Chiesa. Quell’orso, pur inadatto, pur non vocato a portare pesi, li porta. E quella conchiglia, pur priva di capacità, può però attingere l’acqua sufficiente a togliere la sete e divenire il segno identitario del pellegrino: capace quindi, a ogni passo, di ricordargli che è in cammino non per il fisico, ma per una meta da raggiungere.

Le tre figure, che facevano già parte dello stemma cardinalizio di Papa Ratzinger, sono state confermate in quello papale. Immagino per farsi coraggio: essendogli toccato di succedere a un gigante come Giovanni Paolo II, sarebbe stato naturale per chiunque sentirsi annichilito.

Proprio Benedetto XVI, in una catechesi, ha portato l’attenzione sul brano della seconda Lettera ai Corinti (10,10), che rivela i limiti di S. Paolo: «Dalle sue Lettere sappiamo che Paolo fu tutt’altro che un abile parlatore; anzi condivideva con Mosè e con Geremia la mancanza di talento oratorio. “La sua presenza fisica è debole e la parola dimessa”, dicevano di lui i suoi avversari». Eppure, nonostante ciò e nonostante gli insuccessi, poiché non sempre trovava ascolto, Paolo fu uno straordinario diffusore della parola di Gesù: per le migliaia di chilometri percorsi, per le lingue che sapeva parlare, per la volontà di farsi capire.

Chi in questi giorni va in cerca di un papa muscolare, ripensi a Benedetto XVI, che sentiva di non essere naturalmente dotato. Eppure metteva davanti a tutto l’esortazione di Paolo a Timoteo: «Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno…» (2Tm 4,2). Sfidando le leggi della comunicazione, mettendo in conto di poter essere rifiutato e trasformando la timidezza in coraggio.

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