La storia dei nomi, quella di Dio e la nostra

Alcune note di analisi biblica mi hanno stuzzicato una riflessione sull’infinita ricerca dell’identità. Sia dell’uomo che di Dio.
27 Marzo 2023

Alcune note di analisi biblica che ho dovuto riprendere in mano in questi giorni, per motivi di insegnamento, mi hanno stuzzicato una riflessione sull’infinita ricerca dell’identità. Sia dell’uomo che di Dio. Parlo della cosidetta “storia dei nomi di Dio” nel mondo ebraico, dove è possibile descrivere una vera e propria traiettoria storica di come gli Ebrei si sono posti di fronte ai nomi di Dio.

Dalle origini politeiste dei popoli confinanti con Israele, gli ebrei hanno sicuramente tratto l’uso di due nomi. Il primo è Shadday (o El Shadday) usato solo sette volte nella bibbia e solo nell’iniziale epoca dei patriarchi ebraici, che si può tradurre con “Il Dio della steppa che violenta, distrugge e saccheggia”. Assieme a questo, Israele assorbe anche l’uso di Elohim (o Eloha al singolare, forse imparentato con Allah) che ha il suo etimo nell’espressione “la forza di colui che ti sta di fronte, cioè dell’alterità”. Questo nome, fin dall’inizio viene assolutamente preferito dagli Ebrei a Shadday, tanto che è presente nell’antico testamento 2361 volte, nelle varie combinazioni grammaticali. Questa scelta smaschera un primissimo volto della divinità: una alterità potente, che si impone, ma non distrugge; comanda, ma non uccide.

Elohim è un plurale e gli Ebrei, agli inizi della loro storia, non sono monoteisti in senso stretto, ma monolatrici. Ammettono, cioè, l’esistenza di più dei, ma loro hanno scelto di adorarne uno solo, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. E quando questo Dio rivela loro il suo nome, un altro suo volto tende a smascherarsi: JHWH è derivazione, dalla terza persona singolare, dell’imperfetto del verbo essere, e indica una azione senza tempo, presente dal passato al futuro. Perciò andrebbe tradotto con “colui che era, che è e che sarà”.

Non c’è dubbio che questo nome finisce per sopravanzare di molto Elohim, nella teologia ebraica, fino ad essere presente nell’Antico Testamento ben 6830 volte. Come a dire che quella “forza dell’alterità”, lentamente, porta allo svelamento di un altro lato dell’identità della divinità, che si rende percepibile come stabilità del suo essere nel tempo, fedeltà radicale a sé stesso, sempre e ovunque.

Ed è proprio la percezione di questa stabilità costante nella storia degli Ebrei a permettere loro di raggiungere, dopo circa 800 anni dalle loro origini, un vero monoteismo: JHWH ha compiuto, e continua a compiere, cose enormi per loro, prodigi inimmaginabili, guidandoli con fedeltà al loro bene; gli altri dei non esistono, perché non compiono nulla di bene, per i popoli che a loro si riferiscono.

Ma una terribile esperienza cambia le carte in tavola. Il doppio esodo, prima ad opera degli Assiri e poi dei Babilonesi, interrompe parzialmente la trasmissione generazionale della lingua ebraica e, dopo l’esilio, i Masoreti (esperti biblici del tempo) sono costretti a inserire anche le vocali nella scrittura ebraica per consentirne la lettura, fino ad allora solo consonantica. Stranamente, però, nel nome di YHWH vengono inserite le vocali del termine Hadonai, in modo che, da allora, YHWH non sarà più pronunciato verbalmente, ma al suo posto si pronuncerà il nome Hadonai.

Questo nuovo nome di Dio significa letteralmente “mio signore” e, assieme al divieto di pronunciare YHWH (tranne nelle liturgie di alcune feste solenni), ci indicano come, ancora una volta, l’identità di Dio mostri, sotto le maschere dei nomi precedenti, altri due volti. Da un lato che la stabilità fedele dell’essere di Dio, produce effetti amorevoli se gli Ebrei riconoscono e si attengono alla Sua signoria sulla loro vita. Dall’altro che, forse, ormai è impensabile che un solo nome possa racchiudere tanta varietà e ricchezza divina, e che per essere meno infedeli a ciò, è bene appellare Dio solo con la funzione che egli svolge per gli Ebrei (Signore) e non più tentando di racchiudere la sua essenza in una sola parola.

Ma le cose non finiscono qui. Per darsi ragione del dramma accaduto, il post esilio è un periodo di grande riflessione sapienziale e profetica. Fino alla comparsa di un altro nome di Dio, anche se poco presente nei testi, ma molto nella riflessione teologica: Abbà, che significa papà, indicando una paternità con una connotazione molto tenera e dolce. Il libro del Siracide e il Salmo 103 portano a maturazione le tracce precedenti di Osea, Deuteronomio e Isaia, in cui la signoria di Dio inizia a mostrarsi come paternità amorevole. E qui si innesterà l’uso di Gesù di rapportarsi con Dio chiamandolo Abbà. Termine che trova l’etimo nell’espressione “fonte di vita”. Ancora uno smascheramento: quel Dio indicibile e signore in realtà è un padre amorevole che si consegna totalmente per il bene dei figli.

Queste trame della “storia dei nomi di Dio”, possono essere prese come paradigma sano della ricerca della nostra identità personale. Come per gli Ebrei, la cui storia è un susseguirsi di passi in cui si lasciano cadere, ai lati del sentiero, successive maschere di Dio che non “parlano” più sufficientemente di Lui, così l’essere umano procede ad una “spogliazione” progressiva di una serie successiva di maschere, ognuna delle quali dice qualcosa di noi, ma al tempo stesso limita noi stessi solo ad un aspetto, che non sembra più sufficiente a raccontare ciò che siamo nel qui e ora, rispetto al nostro passato.

Nel confronto con la “forza dell’altro”, io scopro una mia identità più profonda e stabile, che resta “fedele a sé stessa”, ma si rivela essere “non pienamente conoscibile ed esprimibile”. La sua percezione, però, è sufficiente perché tale essere si affacci alla mia coscienza come “signoria sulla mia vita”, cioè come un dato che mi precede e che mi è indisponibile. Se lo accetto e lo riconosco in questa sua “alterità” che mi fonda e mi definisce, tale rapporto di signoria tende a diventare una “relazione di figliolanza”, in cui, ben lungi dal presentarsi come signore potente e limitante, la mia identità finisce per rivelarsi la “fonte della mia vita”.

Ma l’analisi di questa “storia dei nomi di Dio” sembra suggerire anche una seconda conseguenza: la possibilità di percepire un’identità di sé più piena e più stabile, ci sarà solo quando l’uomo accetterà di andare continuamente oltre sé stesso. Cioè quando accetterà di lasciare che i nomi dell’altro e i nomi con cui l’altro ci chiama, possano contaminare i nostri nomi, accettando il rischio di perdere la propria identità, ma per arricchirla e allargarla dentro un “noi” che non lo uccide, ma lo realizza pienamente.

 

 

4 risposte a “La storia dei nomi, quella di Dio e la nostra”

  1. Luigi Guerrini ha detto:

    GRAZIE GILBERTO, mi permetto di esplicitare la conclusione …la QUALITA’ che l’altro vede in me (quando è sincero e non per piaggeria) mi provoca, mi sprona ad avere maggior fiducia in me stesso, e mi spinge a superare la PAURA di dovermene assumere la responsabilità (paura che invece generalmente mi frena), diventa nelle relazioni autentiche e sincere quell’ AIUTO CHE GLI è SIMILE (o che gli è DI FRONTE) di cui parla genesi.

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Davvero la Bibbia è un forziere che induce a curiosità e a scoprire sempre cose nuove e a riflessione. I Nomi conosciuti da: Dio Potente Signore e Creatore, che parla, fa udire a Sua voce, si sceglie un popolo, lo aiuta a liberarsi dallo stato di servo, lo conduce a libertà in una terra dove scorre latte e miele, quel rapporto Dio-Uomo e’continuato fino a noi con un Gesù suo Figlio nato Dio ma in carne umana, fattosi presente nella nostra Storia, storia di secoli presente, esistente in mezzo a noi. che ci ha così resi a nostra volta abitanti del suo regno che è di vita eterna. Bello questo percorso nei Nomi, conferma una realtà difficile da negare e cioè con essere un Dio di Amore, e quanto Egli abbia desiderato a esserci Padre”, noi in Cristo figli eredi di vita eterna.. ! Una Storia vera, e dispiace che per ereditare la terra si facciano guerre anziche’ seguire quella Sua Via che sola salva la vita

  3. Pietro Buttiglione ha detto:

    Se mi si conosce.. si sa che quanto sto per scrivere non deriva dalla mia ‘vicinanza’ a Gil, mai incontrato!
    1) complimenti x l’ottimo esempio di corretta esegesi. Edempio x tutti coloro che parlano senza aver conosciuto. Bravo, anzi bravissimo!! Metce :’rara’.
    2) ancor piú complimenti per aver mostrato come nel ricercare Dio in realtá stiamo anelando a NOI STESSI. Anche qs. è toba x pochi illuminati.
    3) forse estrapolo ma mi pare che tu elimini ogni DDI : siamo una sola Persona che prende coscienza di se stessa. Sembra stupiditá ma è FONDAMENTALE.
    4) C’è una cosa che tu non dici, forse xchè OT, che oggi dovrebbe essere riferimento x Israele e molti altri: SE Dio è ALTRO la Terra NON è TUA ( cfr Martini e Laras) e non puoi ridurre Dio a cosa tua.
    Grazie Gilberto. Onore al merito.

  4. Paola Meneghello ha detto:

    In quel “non lo uccide ma lo realizza pienamente”, c’è tutto, secondo me.
    L’io, il mio nome, il mio ruolo ecc, sono strumenti temporanei affinché la mia vera identità possa emergere.
    Però quando una maschera può cadere lo decide solo chi la porta, non la si può uccidere o negare arbitrariamente, ma va sublimata, come un cambiamento di stato. E ciò che ero prima rimane, ma viene trasformato in qualcosa di più completo, per una maggiore comprensione, con più consapevolezza, che mi realizza, appunto, pienamente.
    Questo vale nella religione dove il nome di Dio ne denota un certo livello di comprensione, e vale per l’uomo, che man mano può far cadere le sue scaglie per identificarsi con la propria Essenza, dove non servono più maschere.
    Ma tutto questo è un processo, che va accompagnato e non forzato. Certo va stimolato, ma con il rispetto per la comprensione di ciascuno, dei suoi tempi, della sua storia, in definitiva della Sua Libertà.

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