Alla fine di questo tentativo, di questi post, si potrebbe anche provare a rileggere il senso dell’espressione buona notizia. Qual è la buona notizia a proposito del peccato? E qual è il tono di fondo di una persona che sia raggiunta da questa buona notizia?
Ho spesso l’impressione che ci chi ci legge, ci guarda, ci ascolta, non percepisca tanto facilmente che siamo portatori di una buona notizia e che questa ci solleva l’animo, ci allarga il cuore, ci rende gioiosi di essere al mondo. Più spesso diamo l’impressione di essere persone addolorate, impaurite, preoccupate, arrabbiate. E che di buone notizie ne lasciano trapelare poche. Ma resto abbastanza stupito quando incontro qualcuno che fa di questo stato d’animo “pesante” la condizione corretta e necessaria per essere un buon fedele di Cristo oggi. Ognuno, di sicuro, nella propria storia ha motivi per essere addolorato, arrabbiato, preoccupato, impaurito. Ma pensare che questo sia la condizione ideale del cristiano oggi, non mi torna.
Di solito queste persone traducono questa loro idea con la necessità di vivere il timor di Dio. Espressione tradizionale, ma che oggi non è più comprensibile nella sua radice biblica, e spesso, anche da queste persone, profondamente travisata. Affermano che timor di Dio vuol dire vivere nella costante consapevolezza che Dio ci guarda e che ogni nostro comportamento è sottoposto al suo giudizio. Come un monito perché costantemente ci ricordiamo che la nostra salvezza non è garantita. Perciò il sottofondo emotivo implicito é quello della paura, non tanto di Lui, ma del suo giudizio, perché Egli potrebbe comunque decidere che non ci siamo meritati la salvezza.
E’ il CCC ad incaricarsi di segnalarci che questo atteggiamento contiene un problema spirituale essenziale, in cui il timore di fare il male ci sequestra: “Il timore del male causa l’odio, l’avversione e lo spavento del male futuro. Questo movimento finisce nella tristezza del male presente o nella collera che gli si oppone.” (n. 1765). La tristezza e la paura, la rabbia, sono, cioè, emozioni in cui è molto probabile essere preda del male e finire per dare spazio al suo potere, anche quando pensiamo di farlo per “salvare” la verità di Dio.
In realtà timor di Dio significa un’altra cosa. La radice profonda è quella della percezione della sproporzione infinita tra noi e Lui, e che senza di Lui noi siamo nulla. Tale percezione, nel cristianesimo, per come Gesù ci ha redenti, è stata però modificata. Noi non siamo più alla presenza del Dio tremendo tipico del “sacro” naturale. Noi siamo alla presenza del Dio “papà”, che riempie questa distanza tra lui e noi diventando come noi. La categoria essenziale con cui leggere Dio nel cristianesimo, non è il sacro, ma il santo: “Io sono il santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira” (Os 11,9). Per questo 1Gv dice: “Abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo. Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (4, 17-18).
Perciò il timor di Dio è principalmente il luogo in cui ci ricordiamo che il suo amore è infinito per noi e che, in conseguenza di questo, ora dipende da noi accettare o meno questo amore. La tonalità emotiva di fondo, allora, passa dallo “sgomento” che toglie il fiato, di fronte all’abisso dell’immensità di Dio, al senso di gioia immensa per la liberazione che ha operato per noi, di ringraziamento e di presa di responsabilità su di noi e sul mondo. Non impaurisce, perciò, ma ci responsabilizza, appoggiati sulla certezza che nulla ci separerà dall’amore di Cristo.
Ancora il CCC ce lo conferma. La “passione” fondamentale che muove l’uomo è l’amore. “Esso è provocato dall’attrattiva del bene. L’amore suscita il desiderio del bene che non si ha e la speranza di conseguirlo. Questo movimento ha il suo termine nel piacere e nella gioia del bene posseduto”. La gioia e il piacere sono perciò il metro finale di paragone della bontà della nostra vita cristiana centrata sull’amore.
La buona notizia allora è questa. Dio ci ama sempre, comunque, in ogni situazione, anche quando pecchiamo. E Lui ci ha resi liberi dalla paura della colpa o della condanna, perché Dio ha già deciso che vuole salvare tutti gli uomini. Chi vive o ha vissuto davvero questa esperienza, si ritrova con una gioia profonda inspiegabile umanamente, che non si perde anche dentro a tutte le paure, le preoccupazioni, le rabbie che la nostra storia personale ci consegna. “La contemplazione di un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui” (Benedetto XVI, 15 marzo 2012, messaggio per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù).
L’impressione che ho, però, è che le due vulgate interpretative della redenzione, quella espiatoria e quella del riscatto, che ho mostrato, abbiano nel tempo spostato il centro fondante del cristianesimo dalla resurrezione alla morte di Cristo, colorando di dolore tutta le fede cristiana, quando nella sua sorgente, storica e trascendente, è la gioia della resurrezione ad avere il sopravvento.
Se torniamo a centrarci sulla gioia, invece, ne viene, come conseguenza, un riconoscimento potente e reale del valore della nostra libertà di figli di Dio, senza paure, tentennamenti o distinguo. Libertà che significa responsabilità: Dio ha rimesso a noi la possibilità di realizzazione la nostra vita: essere santi o dannati. Perché, al di là di ogni fatica di crederlo, Dio si fida davvero della libertà dell’uomo, molto di più di quanto non facciamo noi stessi. E lascia esistere pienamente gli effetti delle nostre azioni, sia in bene che in male, perché siamo realmente e potentemente liberi. Una responsabilità effettiva, perciò, ma senza timore o angoscia. Perché sappiamo che un cammino serio verso la santità deve attraversare il peccato, non lo può eludere, nella percezione che il perdono di Dio è sempre possibile. I santi non sono coloro che non cadono mai. Sono coloro che si rialzano sempre. Perciò non è tanto importante imparare a non cadere, ma a sapersi rialzare.
Se per parlare di peccato, il cattolico prende spunto dalla genesi, il vangelo, allora, è stato scritto per niente e il suo protagonista ha vissuto, predicato ed è morto e risorto invano; il contesto storico ai tempi del vangelo non sembra essere poi così singolare e pare avere perlomeno delle assonanze molto forti col presente sia per i riferimenti che per la prevaricazione della morale sulla fede. Il male alla luce della fede è senso di colpa e peccato da cui l’uomo può liberarsi chiedendo perdono. Rispetto alla morale, invece, il male genera solo senso di colpa a cui l’uomo rimane legato se non ha modo di espiarlo. Per evitare il male la morale annienta i sentimenti e condiziona la ragione a cui esso è legato mentre la fede usa l’amore per conservare la capacità di relazione che attraverso il perdono libera dal peccato.