Il Sinodo secondo la CEI: due storie da riconciliare

La storia del "convenire ecclesiale" degli ultimi 50 anni, raccontata di recente dal Presidente della Cei e sulla Civiltà Cattolica, ha nel ruinismo il suo 'convitato di pietra'?
28 Giugno 2021

«Il Sinodo! finalmente» – così padre Spadaro chiude un recente articolo dedicato a questo Tempo di Sinodo per una «Chiesa italiana inquieta». Nell’ultima assemblea generale della CEI, in effetti, i vescovi hanno votato una mozione che dà l’avvio al cammino sinodale, annunciando la costituzione di una commissione che dovrà armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme con quello – contemporaneo – della Chiesa universale.

Sappiamo dalla storia politica e ecclesiale l’origine e il destino di questi gruppi di lavoro preparatori. Forse per questo Padre Spadaro si è chiesto, con lieve ma pungente ironia, se «non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito? Se non altro per svegliarci dal torpore…». Quello che però mi ha maggiormente colpito – e che mi sembra sia restato sottotraccia nella discussione avviata sul Sinodo secondo la CEI – è la ripresa, da parte di padre Spadaro, di due concetti chiave emersi nell’introduzione del presidente della CEI – «riconciliazione» e «stile di presenza» – soprattutto se letti alla luce del rilancio, effettuato dal direttore di Civiltà Cattolica, del punto di vista sulla questione ‘Sinodo italiano’ espresso due anni fa dal compianto padre Bartolomeo Sorge.

Di quest’ultimo viene innanzitutto riportato il «voto finale» (agli Atti) del Convegno ecclesiale del 1976 – per una Chiesa italiana dotata di «strutture permanenti di consultazione e di collaborazione», di «un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa» tra pastori e popolo di Dio – evidenziando, però, il fatto che «la proposta rimase senza esito». Padre Spadaro, poi, pone ancora una volta l’accento sull’intervento di padre Sorge, nel quale si presentava una chiave di lettura storica dei convegni ecclesiali italiani che, messa a confronto con quella utilizzata dal presidente della CEI, sembra riproporre in un altro contesto la mai sopita discussione sulle due ermeneutiche – di rottura e di continuità – del Concilio Vaticano II.

Nella ricostruzione storica del presidente della CEI, il «convenire» ecclesiale, «nonostante le fatiche, i rallentamenti, le fughe in avanti e le cadute» (però non esplicitate), affonderebbe «le radici nel Concilio Vaticano II» e testimonierebbe una decisa «continuità» (una «riproposizione dello schema»)  tra i convegni ecclesiali (e relativi piani pastorali) intercorsi dal 1976 al 2015 («come nei primi Anni Settanta, (…) così oggi»), pur caratterizzata da un «confronto dialettico» e, anzi, protagonista già a metà degli anni duemila di una vera e propria «conversione pastorale» (verso una Chiesa «estroversa – “in uscita”»). In altri termini, «la sinodalità, come stile, metodo e cammino, è perfettamente coerente con un percorso che abbraccia cinque decenni, tanto più per la consapevolezza di un “cambiamento d’epoca” in atto». La stessa «scelta della pastorale-missionaria dell’evangelizzazione», che nel 1976 legò strettamente evangelizzazione e promozione umana, viene vista come confermata, dai convegni successivi, nel legame tra evangelizzazione e carità (o vita buona).

Nell’articolo-testimonianza di padre Sorge, invece, si parla esplicitamente del primo convegno ecclesiale (pensato anche per verificare la recezione del Vaticano II in Italia) come di una «svolta» – dalla «ricaduta e risonanza straordinaria» – però «interrotta», come di «un momento di grazia» e di un «cammino interrotto». Da un lato, quello della «introduzione nella Chiesa italiana dello “stile del con-venire” (come allora si chiamava la “sinodalità”)», si denuncia che «nei successivi quattro Convegni ecclesiali i laici non svolsero più quel ruolo di corresponsabilità che tanto proficuamente avevano esercitato durante il Convegno del 1976»; dall’altro lato, quello della «nuova concezione di missionarietà», si afferma che non si riuscì a «ripensare l’annuncio stesso della fede nella società in evoluzione», finendo per lasciare come una «tappa isolata» l’invito all’«impegno politico diretto, laico e pluralistico, dei cattolici, non isolati, ma insieme con tutti gli altri cittadini di buona volontà» (da cui nacquero poi le c.d. ‘Scuole di formazione politica e sociale’).

Questa interruzione, secondo padre Sorge, fu dovuta non solo alla morte del segretario CEI Bartoletti e a quella di Paolo VI, ma anche alla preferenza assegnata da Giovanni Paolo II alla «linea della “presenza”» (unitaria) rispetto a quella (pluralistica) della «“mediazione culturale”»: essa fu affermata nel convegno di Loreto del 1985 e sancì il «“no” della Cei alla richiesta di dar vita a un organismo pastorale nazionale di dialogo tra i Pastori, i laici e le diverse componenti del popolo di Dio». Alla luce di questa analisi il discorso del Papa a Firenze nel 2015 costituirebbe un invito alla Chiesa italiana «perché con coraggio riprendesse il cammino interrotto», anche se, come ribadito da Francesco con le immagini dell’«amnesìa» e dell’«archivio», questo cammino è stato «interrotto di nuovo» – «quasi istituzionalmente», aggiunge il citato Massimo Naro.

Non diversamente da padre Sorge si è espresso un anno dopo Giuseppe De Rita, in un intervento rilanciato anch’esso da padre Spadaro. Il sociologo del Censis identifica il tempo del convegno del 1976 (insieme a quello di Roma del 1974) come quello in cui «la Chiesa ebbe il coraggio di osare», tra le altre cose, una «mobilitazione collettiva enorme». Essa, però, non venne «mai più ripetuta», sia perché «i vertici della Cei si ritrovarono ‘senza molta benzina nel motore’» (per la morte di Bartoletti, Paolo VI e, aggiunge De Rita, Aldo Moro), sia per «l’arrivo di Ruini» che «si identificò con una decisa e consapevole battuta d’arresto» – chissà se facilitata da «una lettura “semipolitica” [del convegno del 1976] quasi da “sinistra democristiana” o da “cattolici del no”, che ebbe subito risonanza sulla stampa, in qualche modo spostando l’attenzione collettiva dalle motivazioni di lungo periodo (…) all’appiattimento a cronaca politica di un’operazione pensata e curata come avvio di un lungo cammino della Chiesa italiana».

Dopodiché, secondo De Rita, vinse la «tendenza a chiudersi nel recinto del mondo cattolico – i preti [con «selezionati e limitati canali di informazione»] e la loro “gente [«laici che apparivano “più preti” dei preti»] – senza avere il senso della complessità esterna, concentrandosi ad “affermare” (verità, valori, intenti, indicazioni programmatiche), senza mai avere il coraggio di entrare [con la «ricerca»] nella dialettica sociale quotidiana, mediandone aspettative e conflitti». Perciò questo (con le parole del profeta Gioele riprese da Francesco) è ora il sogno dell’anziano De Rita: la Chiesa dovrebbe «scarica[re] sul terreno la sua potenza di mobilitazione e partecipazione collettiva», «il vigore delle diverse realtà socioculturali, da troppo tempo in letargo», per tornare ad «osare» nei «crocicchi su cui misurarsi», con il «coraggio di ricercare nuovi atteggiamenti» e la «capacità di “ordinare” tutto in prospettive di generale senso della storia».

Qui non si tratta, ovviamente, di processare il passato – o di parteggiare per chi si pensa (sbagliando) che lo faccia, ma molto più semplicemente, come ricorda padre Spadaro, di provare a comprendere «che cosa ci è accaduto» e se, effettivamente, siamo in presenza di un tabù storico, di un conflitto rimosso (come ipotizzavamo già qui nel finale del post), con tutti i rischi e i pericoli che ciò comporterebbe.

Nello stesso intervento del presidente della CEI sembra emergere, irrefrenabile, questa problematica. All’inizio, viene ricordata con insistenza «la fedeltà al magistero del Vescovo di Roma», assicurando che la CEI «non è mai stata e mai sarà in contrapposizione» al Papa: excusatio non petita accusatio manifesta? Verso la fine, leggiamo anche di un «urgente bisogno» di «riconciliazione ecclesiale», «al di là delle differenti opinioni… di diversità di vedute… inimicizie e sospetti… dissensi». Ma perché parlare di «soluzione ai conflitti» se la storia narrata non ne presenta alcuno? E se i conflitti (rimossi) sullo stile di presenza ecclesiale fossero legati proprio a quanto segnalato da padre Sorge e dal sociologo De Rita? Non bisognerebbe partire proprio dal riconoscimento di essi prima di sperare, attraverso la discussione e la preghiera (il Sinodo appunto!), di poter «convergere su alcuni punti essenziali» a partire dai quali concordare – (ri)conciliare – «una linea comune»?

Anche tralasciando, per ora, la questione se il futuro cammino sinodale sarà – o meno – anche un evento (come ricordava padre Sorge con «una sua propria autorità teologica e disciplinare», perché «le sue conclusioni, regolarmente votate e approvate, assumono un valore vincolante»), come possiamo sperare che esso non venga inficiato da tale rimosso? Perché quest’ultimo, se già presente, non dovrebbe produrre i suoi effetti in tutto il processo? È sufficiente, per aggirare gli effetti di questo rimosso, pronunciare parole introduttive e intenti che sembrano richiamare in parte ciò che dovrebbe essere il Sinodo secondo Francesco? O, invece, la tortuosità e l’opacità di alcuni passaggi, insieme alla assenza di chiari riferimenti ad una ‘pneuma-teo-logia’ dei segni dei tempi e del mondo (per come auspicata da Francesco) dice la difficoltà di ricordare e elaborare questo rimosso?

Mi sembra che tale problematica sia sentita in modo analogo da padre Simoni quando, a proposito di «una storia di conflitti che in un Sinodo di svolta dovrebbe essere tenuta presente», afferma: «non so quanto in realtà si tenga conto di una necessaria riconciliazione interna alla chiesa con quella base da cui si vorrebbe partire, ma che di fatto è rimasta in gran parte fuori gioco per ragioni tutte da chiarire … Non si tiene conto che le divisioni e le lacerazioni interne alla chiesa sono nate spesso proprio dal diverso approccio che si intende intrattenere col mondo, nodo sempre da sciogliere dal Concilio in poi, e che non può essere risolto gordianamente». In tal senso i timori che non vi sia una vera «consapevolezza» della posta in gioco, al punto da rischiare di ridurre il cammino sinodale ad uno «spreco di tempo» sono stati espressi chiaramente, e la cosa non deve stupirci se anche il cardinal Kasper sembra essersi imprigionato nella «gabbia» di un certo linguaggio.

Confidiamo allora che le parole (qui e qui) del vescovo Erio Castellucci, nominato non solo vicepresidente della CEI, ma anche consultore del Sinodo dei vescovi, possano trovare riscontro alla prova dei fatti: «prima di suggerire e decidere, è bene ascoltare. Non parlo di un ascolto frettoloso e superficiale, tanto per attaccare discorso e dare subito la risposta. Mi riferisco ad un ascolto profondo, (…) che faccia emergere (…) il “sensus fidei”, che il Papa desidera venga intercettato nel percorso sinodale… i germi di fede, di amore e di speranza che abitano il cuore anche di tanti “lontani”… Dobbiamo riuscire a intercettare tutto questo dotandoci di strumenti adeguati che agevolino il confronto e non favoriscano la divisione o la rivendicazione dei propri spazi… Una vera e propria consultazione del popolo di Dio, questa è la sfida».

 

3 risposte a “Il Sinodo secondo la CEI: due storie da riconciliare”

  1. Elisabetta Manfredi ha detto:

    Papi, vescovi, teologi, politici…. tutti maschi gli esperti citati. Finché non saranno ascoltate le donne, teologhe e non solo, ve la canterete e suonerete tra voi, sempre più pochi e autoreferenziali.
    Ma non riuscite proprio a tacere per un poco e ascoltare chi non avete mai ascoltato, ora che il tempo si é davvero fatto breve: ho 60 anni e tra i frequentanti la messa sono sempre e ancora tra i giovani.
    E benedite che ci sia ancora qualcuna che ci spera in una vera conversione sinodale della Chiesa tutta… Solo datevi una mossa, il tempo é davvero poco.

  2. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Resto dell’avviso che quando oramai il fuoco divampa e ben quattro Chiese bruciano totalmente ( nn Notre Dame, già segno simbolo, ma in Canada..) cosa vogliamo suturare o sanare o mettere pezze a fratture…
    Qui bisogna tagliare, buttare fuori, spaccare, espellere il marciume, fare pulizia totale..
    Altrimenti il Sole, Lui, resterà offuskato x sempre a casa nostra, e se ne cercherà un’altra.

  3. Sergio Di Benedetto ha detto:

    Una vera riconciliazione ecclesiale è necessaria, ma prima è indispensabile una rilettura pubblica, una presa di coscienza (con annesso esame di coscienza) e un mea culpa reciproco tra le varie correnti del cattolicesimo italiano del secondo Novecento (a partire dall’alto), che vada a suturare ferite e fratture…

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