Il giudizio : un incontro d’amore

Il giudizio : un incontro d'amore
25 Settembre 2018

Parliamo ora del il giudizio, quello che una volta faceva parte dei cosiddetti “novissimi”: il giudizio finale. Il concetto che mediamente alberga nei fedeli cattolici si può riassumere così: alla fine del mondo Dio emetterà il suo giudizio sulle persone e deciderà, sulla base del male o del bene compiuto in vita, chi è degno del paradiso e chi sarà condannato all’inferno. E’ evidentissimo qui lo sfondo giuridico in cui si pensa la relazione con Dio: il Dio giudice economo della salvezza compirà il suo ultimo atto di giustizia retributiva.

Qualche anno fa, sospinto dalle domande e dalla critiche dei miei studenti, mi sono andato a rileggere numeri del CCC relativi al giudizio finale (1038-1041). Con mia sorpresa mi sono accorto che non viene mai detto esplicitamente che sia Dio a condannare le persone. La stessa cosa nei cinque numeri precedenti, dedicati all’inferno (1033-1037). 

Vengono sì citate le espressioni metaforiche di Mt 25, (soprattutto “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!”), ma chissà perché, quando il testo cerca di descrivere, fuori dalla metafora, l’essenza del giudizio non si dice mai che sia Dio a condannare. Se questo fosse veramente il senso in cui vanno lette le metafore di Mt 25, bastava esplicitarlo. Ma non lo si è fatto. Nonostante la maggioranza dei cattolici abbia assorbito l’idea che è Dio a condannare e premiare. Come mai non lo si è fatto? 

Probabilmente perché Mt 25 non ha questo obiettivo. Non è preoccupato di segnalare chi emetterà il giudizio finale. E’ preoccupato invece di mostrare il cambiamento che Cristo ha portato a riguardo del criterio di questo giudizio. Non più il legalismo dei farisei, o di chi crede di potersi “guadagnare” il paradiso rispettando le regole etiche, o con una espiazione sofferente, ma chi, nel suo agire concreto, perciò non solo a parole, vive la misericordia gratuita. Agire che lui riterrà fatto a sé.

A dimostrarlo sta la precisione con cui Gesù, in Mt 25, riporta le reazioni verbali dei giusti e dei dannati, che sono identiche, ma che hanno significato diametralmente opposto. Esse, assieme alla descrizione del nuovo criterio, sono il cuore del testo, perché il concetto di giudizio di Dio era già ben presente nella mente degli ascoltatori ebrei. Perciò non è per dichiarare che esiste il giudizio di Dio che Gesù usa questa metafora. Lo sapevano già. La usa invece, per svuotarlo del vecchio criterio e riempirlo con il criterio evangelico, lasciando intatto il guscio di questo concetto, per rendersi comprensibile a loro.  

L’espressione “Ma quando mai ti abbiamo visto nudo.. e non ti abbiamo soccorso?” nella bocca dei giusti significa: noi non abbiamo usato misericordia per amare te o ricevere da te qualche ricompensa in cambio, fosse anche il paradiso. Noi lo abbiamo fatto perché l’amore ci ha spinto ad essere misericordiosi gratuitamente, senza nessuna attesa in cambio. Sulla bocca dei dannati, la stessa frase invece significa: Ma Signore, se lo avessimo saputo prima che questo era il tuo criterio l’avremmo fatto, così tu ci avresti dato il premio finale. Si svela, cioè, il cuore profondo delle azioni compiute o no: i dannati hanno una idea del giudizio come di un evento retributivo, sulla base del rispetto della legge, i beati, invece non si preoccupano del giudizio di Dio e vivono semplicemente per amare. 

Ed è proprio questa idea di giudizio retributivo che quel testo di Mt 25 vuole smontare: non c’è un “do ut des” nel giudizio finale, c’è da vivere la gratuità, nulla di meno e nulla di più. Lui per primo, infatti, usa il criterio della gratuità con gli uomini. Il suo giudizio, dalla sua parte, è già stato emesso, quando Gesù si lascia uccidere e il padre lo resuscita. Dio emette lì il suo giudizio, come il vangelo di Giovanni ben dimostra. E il giudizio di Dio è: io non condanno nessuno, io voglio che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità. Io amo tutti gratuitamente. 

Ecco perché il CCC, invece di dire che è Dio a condannare, dice: “Il pieno diritto di giudicare definitivamente le opere e i cuori appartiene a Cristo. (…) Ora il figlio non è venuto per giudicare, ma per salvare e per donare la vita che è in Lui. E’ per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica da sé stesso e può anche condannarsi per l’eternità” (679). “(essere dannati) significa rimanere separati per sempre da lui, per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola inferno” (1033). “(L’inferno) è la conseguenza di una avversione volontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine” (1037). 

E ancora: “Davanti a Cristo che è la verità sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio. Il giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena” (1039). “Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l’opera della creazione e di tutta l’Economia della salvezza” (1040).

Questi testi non denotano traccia di una lettura retributiva del giudizio finale. E sembra difficile sfuggire all’idea che l’azione che Dio compie in questo atto sia solo quella di manifestare la verità della vita delle persone e della storia; mentre quella dell’uomo sia di accettare definitivamente il suo amore o no di fronte a questa verità. E in questo, di sancire egli stesso la propria destinazione finale, eternizzando l’atteggiamento di apertura o chiusura all’amore di Dio avuto in vita. Se vogliamo essere onesti perciò dobbiamo parlare di un auto-giudizio, che l’uomo si da, di fronte alla verità di sé, rivelata da Dio.

Questo non significa che tutti, allora, ci auto assolveremo, perché la verità di sé con cui tutti ci misureremo non sarà definita da noi, ma dalla rivelazione finale che Dio compirà. L’assolutezza del giudizio divino, perciò, resta chiara. Ma non si applica alla decisione sul destino finale delle persone, bensì alla rivelazione della loro verità, che, fino a che siamo in vita, resta ancora nascosta.

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