Curiosare secondo lo Spirito

Un insolito legame, individuato da Papa Francesco, tra desiderio, Spirito e Sinodo permette di illuminare tre aspetti fondamentali della sinodalità.
2 Febbraio 2022

Al termine del discorso al Collegio cardinalizio e alla Curia romana (23 dicembre 2021), Papa Francesco ha collegato il desiderio e lo Spirito Santo. Mentre stava esortando ancora una volta i cardinali, gli uomini di Curia e sé stesso a lasciarsi «evangelizzare dall’umiltà», fin quasi a implorare di chiedere al Signore almeno la grazia di «desiderarlo», ecco che Francesco dava mostra di considerare il «desiderare» come la «primordiale manifestazione dello Spirito dentro di noi», come «lo Spirito già all’opera dentro ciascuno di noi» (dove determina, non a caso, «un cambiamento» il cui «risultato» è proprio l’auspicata umiltà).

Già una volta il vescovo di Roma aveva legato strettamente Spirito e desiderio, esortandoci ad avere «un cuore nuovo, inabitato dallo Spirito Santo (Ez 11,19; 36,26)», e precisando che «lo Spirito Santo feconda il nostro cuore mettendo in esso i desideri nuovi (Rm 8,6) che sono un dono suo, i desideri dello Spirito. Desiderare secondo lo Spirito, desiderare al ritmo dello Spirito, desiderare con la musica dello Spirito» (Udienza generale, 28.11.2018). Ma qui, l’intrecciarsi di desiderio e Spirito con il fatto nuovo del Sinodo sulla sinodalità riesce anche a  illuminare i tre aspetti centrali dello «stile» sinodale (missione, comunione, partecipazione) di cui i membri della Curia e i cardinali devono essere i primi testimoni o i primi convertiti.

In primo luogo, il nodo della missione, ossia dell’evangelizzazione. Se il desiderio è legato alla ‘povertà’, alla mancanza, allora la ricerca dell’altro, l’andare incontro agli altri (per ascoltarli, dialogarci e discernere insieme) sarà motivato da una forte «passione per i poveri, cioè per i “mancanti”»: non solo nel senso di «coloro che “mancano” di qualcosa in termini materiali, spirituali, affettivi, morali», ma soprattutto – con un’intuizione molto bella – «perché essi ci mancano: ci manca la loro voce, la loro presenza, le loro domande e discussioni. La persona con cuore missionario sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo» – a cercarlo – altrimenti, «se ognuno rimane chiuso nelle proprie convinzioni, nel proprio vissuto, nel guscio del suo solo sentire e pensare, è difficile fare spazio all’esperienza dello Spirito».

Questo perché «la diversità», soprattutto di «quelli che non la pensano come noi», è una ricchezza – «la ricchezza multiforme del Popolo di Dio» – in quanto è precisamente «forza vivificante» e «dono dello Spirito Santo». Dunque un Suo desiderio, volto a sciogliere anche il nodo della comunione, ossia di quella che – alla luce dello Spirito – non dovrebbe mai essere una «complicità» per «interessi personali» – tra «maggioranze o minoranze concorrenti, questo partito o quell’altro, quell’opinione o quell’altra» – perché ne verrebbero solo «divisioni, fazioni, nemici», «favoritismi e cordate», ma una «collaborazione» per «ravvivare» (senza «ripetere») le «radici» della «Tradizione» e aprirsi ai «germogli» di «ciò che non si conosce» – della «novità» che mette «in discussione» – perché «senza di essi siamo ammalati, e destinati a scomparire».

Il «lavoro in gruppo» apre, infine, alla «creatività» dello Spirito, la quale «si manifesta» quando sciogliamo il nodo della democrazia, ossia quando «si lascia e si trova spazio per tutti, anche a chi gerarchicamente sembra occupare un posto marginale»; quando si generano «dinamiche concrete in cui tutti sentano di avere una partecipazione attiva, (…) corresponsabile del lavoro, senza vivere la sola esperienza spersonalizzante dell’esecuzione di un programma stabilito da qualcun altro»; quando – finalmente – si comprende che «“tutti” non è una parola fraintendibile!».

Dovremmo quindi acquisire una sorta di santa e gioiosa – o meglio gaudentecuriosità, tale perché – ripetiamolo – non ossessionata dal trasmettere e testimoniare agli altri un depositum fidei già d(on)ato e confezionato, ma desiderosa di scoprire negli altri ciò che attualizzerà e rinverdirà quel depositum fidei; non fissata esclusivamente sul proprio dono – ricevuto in passato da Dio – da regalare, presentare agli altri, ma concentrata anche e forse oggi innanzitutto sul regalo, sul presente – di Dio – che gli altri possono essere per noi. Non meri recettori del kèrigma testimoniato in risposta a loro (eventuali) domande, bensì innanzitutto trasmettitori di ciò che lo Spirito sussurra al testimone stesso, portatori di risposte (ovviamente donate dall’Altro) a domande – espresse o inespresse – che si muovono dentro la comunità ecclesiale. Senza alcuna paura di «togliersi» ogni forma di «armatura, maschera, rassicurazione»; senza alcuna vergogna di «mettere a nudo» ogni nostra «fragilità» e «miseria», in quanto veramente consapevoli che «siamo tutti bisognosi di essere guariti (…) con lo stesso amore e tenerezza».

 

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