Alla fine, Plaza do Obradorio. Non so perché, ma me la aspettavo diversa. Immaginavo l’ingresso in faccia alla Basilica di Santiago, al fondo di una strada in salita. Invece ci si entra di lato, scoprendo lentamente sulla propria destra la facciata iperbarocca della basilica, mentre a sinistra un palazzo pesante e massiccio chiude la piazza di fronte alla chiesa.
Santiago è come san Marino. Iperturistica, con negozietti di gingilli e souvenir ad ogni lato. Ristoranti, taverne, pizzerie si sprecano. C’è persino il trenino che porta la gente in giro per la città. E non sai quasi più distinguere tra un pellegrino e un turista. E forse questo è davvero simbolico.
Dopo un mese passato a camminare, standosene fuori dal mondo ordinario, senza troppi contatti con chi pellegrino non è, senza troppe notizie, senza troppo internet, a Santiago si rientra nel mondo. Si ritorna a fare i conti con la realtà effettiva. E in effetti, se si guarda la gente, si ha l’impressione di essere a Time Square o a Piccadilly Circus. C’è il mondo intero! Ovunque guardi, ti passano davanti tre o quattro razze diverse, lingue diverse, provenienze diverse. Hai la percezione diretta che il mondo è davvero molto più vario di quanto lo possiamo pensare.
Ma con una differenza. Il pellegrino, rispetto al turista, ha un sorriso identificabile, una allegria ben visibile, una camminata e un abbigliamento che comunque si fanno notare. E soprattutto il pellegrino ha qualcosa che gli bolle in pentola, e che da un mese sta portando a termine una trasformazione, piccola o grande che sia. C’è chi canta e danza in gruppo, c’è chi si abbraccia e piange, c’è chi si stende finalmente in mezzo alla piazza, con un gesto liberatorio e di consegna. C’è chi, come me, si siede appoggiato al colonnato, in faccia alla basilica e lascia che i pensieri prendano il volo.
Sì è vero, non sono riuscito a farlo tutto a piedi. Mi fa male. Ma sono qui lo stesso. Il mio cammino è arrivato fino in fondo, fino a dove io potevo e questo mi basta. I visi e le voci che mi hanno accompagnato oggi non ci sono, ma mi restano dentro e mi domandano di tirare un filo.
So perfettamente quello che mi porto a casa. Ho toccato il mio limite e ho deciso di accettarlo. Non è poco. Ho condiviso con altri la puzza dei piedi e gli sguardi intensi, le docce fredde e la gioia degli arrivi, il russare nel sonno e i pezzi di storia, i becchi di insetti e l’allegria delle serate. Mi sono riempito di colori e profumi, di passi e di silenzi, di sapori e di sorrisi.
Ma non so dire davvero quello che lascio, quello che abbandono qui, come peso del mio passaggio. E questo dubbio mi attira i pensieri, tanto che non posso più restare fermo. E mentre mi alzo dal fondo della piazza, mi raggiunge un pezzo di musica da un capannello di scout: “Mi fido di te… io mi fido di te… cosa sei disposto a perdere?”. E questa domanda mi rincorre fino dentro la Basilica, dove finalmente il silenzio mi avvolge. E lì, dentro una chiesa quasi vuota perché è troppo presto, piano piano una risposta si apre.
Sono disposto a perdere il mio orgoglio? Ormai sdrucito e stanco a forza di pensare, per difendermi, che mi basto e sono autosufficiente e ciò che voglio lo posso davvero raggiungere da me stesso. “Quand’eri più giovane, ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti”.
Sono disposto a perdere la mia volontà? E accettare che la realtà vada per strade e con tempi che io non ho deciso e sui quali non ho potere. Ma soprattutto accettare che la mia mente non riesca a ritrovare un senso a quello che le viene offerto e che navigare a vista, ad un certo punto, diventa indispensabile per non tradire te stesso e Dio. “Ha disperso i superbi nei pensieri dei loro cuori e ha innalzato gli umili”. “Hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli”
Sono disposto a perdere la mia identità? Di chi si appoggia sul proprio ruolo, sul proprio gruppo, sulla propria religione e sul potere che in esso si nasconde, per non giocarsi mai alla pari e veramente con chi ha a che fare. Fino a pensare che sporcarsi le mani con la terra e il mondo sia il rischio più grande invece che l’unico modo di vivere. “Non chi dice Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”
Sono disposto a perdere la vita? Se guardo avanti so che mi resta meno tempo di quello che ho dietro le spalle. E sento che non paga più la fatica immane di proteggersi e salvarsi, come se il gioco fosse arrivare in salute al “gran finale”. E’ ora di spendersi! Se non ora, quando? Essere sé stessi è diventare di più di sé stessi. “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà”.
Fra due giorni un aereo mi cullerà, prima di riconsegnarmi alla realtà. Torno sereno. Ho lasciato qualcosa qui.