Benedetto Coronavirus!

Sì, può sembrare una bestemmia. Ma dobbiamo ammettere che questo flagello ci sta insegnando parecchie cose che tendevamo ad accantonare. Come uomini e come credenti. Sempreché vogliamo ascoltare...
9 Aprile 2020

Ma quante cose ci sta insegnando il coronavirus? Con il massimo rispetto per i molti che sono morti e il dolore dei rispettivi familiari, e senza sminuire le fatiche che la pandemia ha procurato e ancora procurerà a tantissimi se non a tutti, dobbiamo ammettere che questo prolungato periodo – e anche perché prolungato – ci sta venendo utile, forse persino necessario. Parafrasando coloro che ritengono l’attuale flagello un castigo di Dio (tra cui il sottoscritto non si annovera per nulla), sarei quasi portato a ritenere che si tratti di un’occasione per insegnarci qualcosa, alla maniera biblica: «Poiché siete un popolo di dura cervice…».

Possiamo infatti dire che, nella maledizione della fretta e del «non aver tempo» di quest’epoca frenetica, ci faccia male la forzata sedentarietà? Oppure che – noi abituati a considerarci per quello che facciamo, a valutarci per la funzione svolta – sia negativo trovarci ogni mattina nudi di grado gerarchico e di occupazioni, soli davanti a un altro noi stessi? Per non parlare dell’affrontare la paura, del vivere magari in solitudine, del sentirsi fragili di fronte al futuro, del non avere alibi o diversivi per poter fuggire di fronte a certe situazioni sempre rimandate o scansate…

Non a caso più di qualcuno ha già scritto che «niente sarà più come prima», che dovremo cambiare tanti approcci e non soltanto al sistema sanitario o al modo di lavorare o all’economia in genere, ma anche più largamente nell’ambito sociale e persino religioso. Qualcuno ha già tentato una lettura “teologica” di questi tempi del virus, per esempio il cardinale José Tolentino Mendonca e il giornalista Lorenzo Fazzini in due instant e-book che sono anche scaricabili e fruibili gratuitamente. Ma anche qui su Vino Nuovo si sono accumulati molti scritti, per approfondire i molti aspetti “religiosi” della pandemia.

In effetti, sono moltissime le domande sulla nostra idea di Dio e sul modo di celebrarlo che l’attuale contingenza sottopone al nostro approfondimento, e che bisognerà avere il coraggio di non accantonare appena trascorso il flagello, facendo finta che nulla sia avvenuto. Per esempio, anche se non si accetta l’idea che si tratti di una punizione celeste, bisogna però ammettere che il virus si porta dietro un forte problema di Dio: se si tratta infatti puramente di un fenomeno “naturale”, in cui Dio non c’è o non c’entra, che senso ha pregarlo che lo faccia smettere? Ci penserà la “natura”… Se invece Dio c’entra, qual è il suo ruolo? Dove sta la sua “bontà”? Qual è il messaggio da decodificare?

Scendendo poi a livello ecclesiale, e quindi liturgico-pastorale-catechetico, quante “tradizioni”, quante “certezze”, quante abitudini sono saltate per aria in queste settimane (compresa la presente Settimana santa)! Non tutto, di quanto creativamente escogitato per supplire alle pratiche abituali, si è infatti dimostrato soltanto posticcio e meramente sostitutivo… Ci sarà tantissimo da riflettere – per dire – sull’idea di sacramento e la sua canonica distinzione in “materia” e “forma”. Ma anche sulla possibilità di una catechesi “virtuale” in cui magari coinvolgere i genitori o comunque gli adulti; i quali peraltro stavolta sono stati chiamati in causa nella loro realtà “sacerdotale” nelle proprie “chiese domestiche”, mentre d’altra parte i preti – orfani obbligatori del ruolo di organizzatori parrocchiali tuttofare – potrebbero soffermarsi su quanto la comunità ha ritenuto indispensabile ricevere dal loro ministero… Insomma, domande: e ci vorranno coraggio e voglia per rispondere. O si preferirà tornare indietro come nulla fosse?

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