«Beati i costruttori di pace»: violenza e ospitalità sul confine

Geografie della Parola /11: passeggiare per il Carso, in compagnia di un uomo anziano, vedendo tracce di guerra, ma gustando l’ospitalità che schiude la pace
9 Settembre 2023

Bisognerebbe farsi guidare dal silenzio quando si percorre una terra violentata dalla guerra, per non far cadere il monito ai vivi. Un silenzio che può essere interrotto solo dalla compagnia di qualcuno che tesse fili di pace e, in questo modo, rende giustizia al mondo.

Così è accaduto a me, non molto tempo fa. Credo che in Italia non ci sia terra più del Carso intrisa di sangue: lì, per quasi tre anni, centinaia di migliaia di soldati italiani e austro-ungarici trovarono la morte, non risparmiando nulla: villaggi, città, perfino le montagne persero, in alcuni casi, metri di altezza a causa dei bombardamenti.
Quest’estate ho camminato sul Carso, proprio sulla linea del fronte, in compagnia di un anziano uomo sloveno, Izidor. Egli vive in Slovenia, a ridosso del confine, a pochi chilometri da Gorizia, in un piccolo borgo che porta il nome di Opatje selo, una volta anche Opacchiasella; ha un orto, un uliveto, una vigna, un prato dove pascolano un’asina e una pecora; il cippo che segna il confine costeggia il terreno di cui si prende cura, secondo l’antica sapienza che coltivare è edificare e custodire.
Ho camminato con Izidor un pomeriggio: la terra, dopo più di cento anni, porta ancora le ferite della guerra: una trincea austriaca scavata nella pietraia arida del Carso è ora accanto alla mangiatoia degli animali. Camminando, Izidor si china a raccogliere un pezzo di metallo: è una scheggia di obice: frammenti di conflitto che la terra continuamente riporta in superficie.

Eppure, un anziano sloveno e un italiano, nell’estate del 2023, hanno camminato un po’ in silenzio e un po’ conversando tra queste macerie di civiltà, che ora la fedeltà di un uomo ha tentato di ricostruire: una casetta in pietra; alberi di ulivo per un po’ di olio, una vigna per del vino: gli antichi segni della civiltà, quando non si consuma nella guerra ma è tracciato di futuro. «Beati quelli che diffondono la pace: Dio li accoglierà come suoi figli» (Mt 5,9): così recita la versione interconfessionale della Bibbia. E a me risuonava quel versetto, e mi pareva di farne esperienza: un uomo con molti anni sulle spalle diffondeva pace, accompagnandomi, spontaneamente, su quei sentieri. Non so nulla della fede di Izidor, e nemmeno mi interessa; quei suoi modi, quel suo andare pacato, quelle sue parole diffondevano pace e davano certezza che coloro che costruiscono pace «Dio li accoglierà come suoi figli».
Oltre la prima, anche la seconda guerra mondiale qui ha fatto dolorosa sosta: le vicende del confine orientale, tra i violenti soprusi fascisti sugli slavi e la tragica vendetta jugoslava sugli italiani: morti e drammi di vita che dovrebbero condurre al desiderio di riconciliazioni, a cammini di futuro condiviso. Oggi, il confine non c’è più, di fatto: terre divise fino a pochi anni fa da un muro, ora sono parte della casa comune europea. Poi è passata anche la distruzione della natura, provocata però dall’uomo: Izidor ricorda i segni recenti del fuoco; l’anno scorso forti incendi hanno distrutto di qui e di là del cippo, perché il fuoco non conosce frontiere, come la follia umana. Ma anche l’amicizia originale e spontanea di due animali, l’asina e la pecora, non segue fratture: quando scappano, sempre in coppia, a volte si dirigono in Italia, a volte in Slovenia: allegoria di quello che, nella differenza, potremmo fare tutti, se puntassimo alla fiducia e al bene, più che al marcare differenze e rinvigorire paure. Poco lontano da qui, ancora, passano rotte moderne, ugualmente disperate, di migrazioni; qui ancora approdano i fuggiaschi di molte guerre, anche europee.

Al tramonto terminiamo la passeggiata: porto in tasca il pezzo di obice. Izidor mi invita alla sua tavola, dove la moglie Cirilla ha preparato una frittata, e poi del salame, della pancetta, del vino bianco, del pane domestico: tutto frutto di mani conosciute. È l’ospitalità inattesa: beviamo, mangiamo, parliamo, ascoltiamo. Cambia la luce su questo fazzoletto di terra, si spengono suoni di cicale, tocca ai grilli intonare lo spartito.

«Beati i costruttori di pace»: dove per anni è imperversata la guerra, ora vive l’ospitalità semplice, che è riconoscimento di comune umanità. Di quanti Izidor avrebbe bisogno il nostro secolo?

Servirebbe avere il genio del poeta soldato che scriveva, in questa terra, versi indimenticabili, fondando nuova poesia: «Accolgo questa / giornata come / il frutto che si addolcisce» (Giuseppe Ungaretti, Godimento, da L’allegria).

 

Una risposta a “«Beati i costruttori di pace»: violenza e ospitalità sul confine”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    E oggi noi possiamo fingere di vivere la Pace,? rumours, luci a raffica segnano il cielo nero = cannonate da soldati in mimetica confusi nelle boscaglie mitraglianti i nemici a pochi chilometri,queste scene vengono trasmesse da TV, talk quotidiani che sarebbe meglio ormai silenziare dal momento che conta di più attendersi risoluzione da Governanti di Nazioni le più potenti oggi a decidere le sorti se “basta guerra, carneficina di vite umane senza un perché.Tutto questo instilla mestizia, ciò che è accaduto nel passato lo riviviamo oggi, che non prelude a futuro possibile. Il cittadino comune si domanda:” perché io non conto? Perché non conta la mia voce a esigere che le discordie si chiariscano in modo civile, facendo uso della intelligente Parola e a interpretare i sentimenti di popoli che non chiedono altro che condividere una vita in amicizia e solidarietà, non assillati da un progresso e generato cupidigia abnorme danno alla società, che vive disvalori in umanità.

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