Ancora sulla volgarità…

Dopo l’immagine del cane di Rembrandt, l’utilità del “terra terra” nelle parole…
7 Ottobre 2019

CHE FIGURA!

Nei Vangeli delle Messe festive di questi mesi, si riascoltano spesso le parabole: i cui contenuti continuano a scuotere, al contrario dei titoli, piuttosto mosci. A partire da quello della parabola «forse più bella» (a detta di Benedetto XVI), che qualcuno propina ancora come la parabola del figlio prodigo… come quando eravamo piccoli (e, a questo punto, perché non ripristinare figliol o addirittura figliuol?).

Ogni titolo di parabola, si sa, è stato aggiunto redazionalmente – come un campanile alla chiesa – per poterla individuare nel panorama urbano e non va sacralizzato, come se l’avesse detto Gesù in persona, benché si debba tenere conto della tradizione della Chiesa. Il titolo, tra l’altro, è una soglia, un invito a entrare dichiarando di chi si parla. Dunque va fatto bene. E rifatto se ci si accorge che è diventato incomprensibile: un titolo contenente l’aggettivo prodigo, che oggi significa dispensatore o donatore più che dissipatore o sprecone, ha pure il limite di portare il cono di luce su uno solo dei due figli, oscurando gli occhi buoni del padre e quelli cattivi del fratello (evidenti nell’acquerello di François-Xavier de Boissoudy, del 2016).

È per questo che da tempo si fa uso di nuovi titoli. Chi continua a concentrare l’attenzione sul figlio che se ne va di casa, preferisce chiamarlo il figlio perduto e ritrovato (Carlo Maria Martini). Chi, invece, vuole portare l’attenzione sul padre, lo definisce misericordioso (Bibbia, nella traduzione Cei del 2008) oppure prodigo d’amore (Enzo Bianchi), mentre chi ama rimarcare i comportamenti dei giovani opta per la parabola dei due figli (Paul Ricoeur) o dei figli perduti (Henri Nouwen). Chi, infine, intende ricordare tutti i personaggi, la ribattezza come la parabola dei due fratelli e del padre buono (Benedetto XVI).

Ma, in alcuni casi, occorrerebbe abbandonare la pigrizia e osare di più. Ricorrendo a termini che solo il linguaggio volgare sa rendere adeguatamente. Ne fa uso persino il libro del Siracide (22,2), quando paragona il pigro «a una palla di sterco: chi la raccoglie scuote la mano». Perché la volgarità è immediata, si fa intendere, non lascia sospesi per aria.

È che noi siamo troppo educati o politically correct e ci sembra di far peccato, nell’educazione alla fede, a scendere a questo livello.

Un esempio di quanto siamo morbidi è nella parabola – in Lc 11 – di quel tale che a mezzanotte va a bussare a casa dell’amico, chiedendo tre pani per un terzo amico appena arrivato da un viaggio: la parabola viene detta dell’amico importuno, se si porta l’attenzione su colui che bussa, o dell’amico importunato, se ci si riferisce a quello tirato giù dal letto. Non sarebbe più chiara, per i ragazzi, come la parabola dell’amico sfranto o dell’amico scassapalle, a seconda di chi si sceglie come protagonista?

Analogamente, in Lc 14: invece della parabola del grande banchetto (che non dice niente), perché non chiamarla del pranzo con gli sfigati (che va al sodo)?

In Lc 16 c’è stata un’evoluzione: dall’amministratore disonesto, quello che per salvarsi truffa il suo capo, si è passati a scaltro o furbastro. Ma s’è mai sentito un ragazzo usare questi termini? Il linguaggio volgare ha l’espressione perfetta: perché non dire l’amministratore paraculo? Non tanto per captatio benevolentiae, quanto per onestà verso il significato dato dal Vangelo.

Ancora, in Lc 16: al posto del ricco epulone (che sembra un nome proprio, tanto più se contrapposto al povero Lazzaro), non è preferibile il ricco gaudente? O, meglio ancora, il ricco che mangia come un porco?

Tra non molto incontreremo, in Lc 18, la parabola del giudice e della vedova, ai quali talvolta si aggiungono gli aggettivi iniquo e importuna. Ridicoli per quanto sono rispettosi; stonati in una storia che è quasi comica, con due personaggi strabordanti, esagerati, nella quale Gesù si è sentito libero di utilizzare immagini forti. E, pur di provocare un’associazione di idee, non ha esitato a prendere un personaggio negativo. Ovvio che corra il rischio di far identificare il giudice con il Signore: ma la similitudine vale solo per un aspetto (quello del cedere alle insistenze), al punto di dover precisare che il giudice non ha timore di Dio. Gesù utilizza la similitudine come un taxi su cui salire e da cui scendere, come quando si serve della figura del ladro che arriva all’improvviso.

Ciò che cerca di far capire è che se questo ominicchio (per dirla alla Sciascia), che non guarda in faccia nessuno, né Dio né i propri simili, ed è pure disonesto, se persino lui si scioglie davanti a una scocciatrice disumana… a maggior ragione Dio, ben più buono del giudice, darà retta a chi gli chiede aiuto.

Mai citata da nessuno, questa parabola non resterebbe maggiormente nella memoria se la si chiamasse del giudice scandaloso e della vedova rompiscatole?

Anche se non saranno mai accolte in nessun catechismo, vi sono parolacce bellissime (notare l’ossimoro) che arrivano all’essenza molto più in fretta… E che ci fanno prendere atto della differenza tra l’italiano (più abbottonato, da cerimonia) e il dialetto, tra il vestito della domenica e quello di tutti i giorni.

Sì, viene la tentazione di pensare che le parabole siano il dialetto di Gesù. E di immaginare quanto sarebbe migliore, nella parabola più bella, un titolo che fa il verso a un film di Sergio Leone: tipo Il buono, il cattivo, lo stronzo…

 

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