Qualche giorno fa ho letto con piacere il post Il prete gonfiabile. Il tema del timor di Dio è uno di quelli che più mi stanno a cuore. Assieme al concetto di merito, e di giudizio, fa da confine tra le diverse logiche della salvezza che il cristianesimo conosce. Nel post si dice che il “Timor di Dio non vuol dire tanto avere paura di Dio, quanto vivere nella costante consapevolezza che Dio ci guarda e che ogni nostro comportamento è sottoposto al suo giudizio”. Ora, questa espressione può essere letta in molte logiche diverse.
Ad esempio posso leggerla nella logica del “do ut des”. Dio potrebbe fare di noi tutto ciò che vuole, anche annientarci seduta stante, senza doverci nessuna spiegazione. Benignamente ha voluto invece crearci e offrirci una strada per redimerci dal nostro peccato e per questo ha mandato a morire suo Figlio per donarci la possibilità del riscatto, ma si è poi riservato di decidere su ognuno di noi, alla fine dei tempi, a seconda di come in questa vita abbiamo avuto fede. In questa logica la frase del post suona come un monito perché costantemente ci ricordiamo che la nostra salvezza non è garantita. Perciò il sottofondo emotivo implicito é quello della paura, non tanto di Lui, ma del suo giudizio, perché Egli potrebbe comunque decidere che non ci siamo meritati la salvezza. Qui Dio è un giudice e la vita di fede è il luogo di accumulo dei mentii o dei debiti nei suoi confronti.
Ma la stessa frase potrebbe essere posta nella logica della differenza dell’essere. Dio è l’assoluto, l’infinito, che ci ha creati perché noi partecipassimo della sua vita infinita. Quando però il nostro peccato ha rovinato il ponte che legava Lui a noi, Egli, fedele a sé stesso, ha ricostruito il ponte per arrivare a Lui, rovesciando il peccato in grazia, facendo della morte di suo Figlio il luogo della nostra vita. L’accesso alla sua vita è perciò stato ripristinato, ma l’uomo ora ne fa esperienza non più come di una “elevazione” graduale alla divinità, come forse poteva essere prima del peccato, ma attraverso la frattura drammatica della morte, vissuta come atto di amore che apre alla resurrezione. Perciò in questo contesto la frase in questione diventa il ricordo costante della sproporzione infinita tra noi e Lui, e che senza di Lui noi siamo nulla. Il tono emotivo implicito stavolta è lo “sgomento” che toglie il fiato, di fronte all’abisso dell’immensità di Dio, facendoci percepire la possibilità di essere nulla di fronte al Dio che è tutto. Qui Dio è il Sacro, il totalmente altro e la vita di fede è il luogo del riconoscimento e dell’accettazione della sua signoria trascendente su di noi.
Ma ancora, la stessa frase potrebbe essere letta nella logica dell’amore. Dio ha tanto amato il mondo, che dopo averlo creato solo per amore ha continuato ad amarci anche dopo il peccato, sacrificando suo Figlio per noi perché vedessimo che persino la morte, come effetto ultimo del nostro peccato, non sfugge al suo amore. E qui, l’atto unilaterale col quale Dio ci salva diventa anche il suo giudizio sul mondo, che è già stato emanato. Nella morte di Gesù, Dio ha già deciso che chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Perché Gesù Cristo è risorto. Cioè, se dipendesse solo da Dio tutti si salverebbero. Ma siccome il nostro Dio non annulla mai la libertà dell’uomo, il suo giudizio si realizza solo con un secondo atto, che è dato dalla accettazione da parte dell’uomo della sua offerta di salvezza. E ciò è in mano all’uomo e si realizza a partire già da ora sulla terra fino a quando lo vedremo così come Egli è dopo la morte. In questa logica la frase sul timore di Dio diventa il luogo in cui mi ricordo che il suo amore è infinito e che dipende da me accettarlo o meno. La tonalità emotiva sottintesa è perciò il senso di ringraziamento e di presa di responsabilità su di me. Dio è amore e la vita di fede è il tentativo umano di stare al passo, per la sua grazia, con questo amore infinito che ci vuole raggiungere e trascendere.
Ma ancora potremmo immaginare la stessa frase nella mente di chi vive la logica dell’indifferenza gratuita. La grandezza dell’amore di Dio è talmente incommensurabile per noi, che ci è impossibile, anche con il peccato più sordido, scalfire questo amore. La morte e resurrezione di Cristo stanno lì proprio a dire che Lui non si è fermato davanti a nulla e nulla lo fermerà. Perciò Egli ci raggiungerà sempre e dovunque e alla fine troverà il modo di salvare davvero tutti. Perciò il suo giudizio è solo un simbolo, che ci indica solamente la sua strabordante superiorità rispetto a noi, che si realizza appunto nel perdono assoluto. In questa logica la frase sul timor di Dio è solo una metafora per indicare come l’uomo resta comunque sempre alla sua presenza, che è radicalmente una presenza di amore invincibile. L’emozione che sottostà alla frase è la leggerezza che rende irrilevante e gratuito tutto ciò che accade sulla terra. Dio qui è un “giocoliere” divertito e la vita di fede solo il biglietto di ingresso al suo spettacolo, al quale comunque possono assistere tutti, che pur sembrando una tragedia, si chiuderà come una commedia.
Come è evidente, più che le idee razionali sono le emozioni della fede, e le relative immagini di Dio che ci portiamo dentro, a dirigere l’interpretazione di questa frase. Personalmente credo che così come è formulata, la frase sul timor di Dio, inclina a ritenere “naturale” l’emozione della paura del giudizio e il primo tipo di logica, quella del “do ut des”. Ma io credo che il baricentro del cristianesimo non stia lì. Ma stia invece tra la seconda e la terza di queste logiche. Sia la bibbia che il papa, nel discorso citato nel post, si situano proprio a cavallo tra la seconda e la terza. E la grandezza del cristianesimo consiste proprio nella possibilità di tenere insieme queste due logiche. Mentre ho la sensazione che se il baricentro della nostra fede sconfina sulla prima o sulla quarta di queste logiche rischiamo davvero di fermare la nostra conversione di fede ad un livello spirituale minimale, che genera immagini di Dio e di salvezza davvero non credibili.