All’ingresso di Viana

"Non c'è nulla da inseguire nella vita, non c'è nulla da cui difendersi, ogni giorno ti porta il regalo di essere vivo senza averlo chiesto, e questo da una serenità che non si può descrivere"
8 Agosto 2011

Il sentiero scende ripido. Costeggia a destra una statale poco frequentata. A sinistra una collina di grano e viti basse che sembrano solo appoggiate sulla terra rossiccia. Il sole taglia radente e colora le cose di una luce intensa. Sono le 7 e mezza di mattina. Cammino da circa due ore. La tappa è lunga oggi. In fondo alla discesa intravvedo un pellegrino solo davanti a me, dietro non c’è nessuno. Penso ai becchi di insetti che mi sono preso ieri e al piede destro che mi lancia dei segnali di dolore nel tendine anteriore della caviglia. Sono un po’ preoccupato.

La mia andatura guadagna terreno sul pellegrino davanti e piano piano comincio a distinguerlo meglio. E’ una pellegrina, zaino piccolo, cappellino a tesa larga verde. Un bastone nella mano destra a cui si appoggia con evidente sforzo e la gamba sinistra che trascina come se non potesse alzarla. All’ultima curva della discesa la raggiungo e come sempre ci si saluta: “buen camino”. Mi risponde con un sorriso dolce e quasi ingenuo, che stride con l’evidente fatica che fa a fare il passo. 

“Todo bien? – le chiedo”. “Si, todo bien! Y tu? todo bien?” La sua risposta mi sorprende, non mi aspettavo che mi chiedesse come sto io. “Si, bien si, un poco de dolor al pie ma bien, como va tu pierna?” (Si, bene si, un po’ di dolore al piede ma bene, come va la tua gamba?). Mi sembra sensato chiederlo perché è evidente il suo sforzo, trascina la gamba sinistra senza riuscire a sollevarla, cammina tutta appoggiata al bastone e non muove braccio sinistro, legato ad una cinghia dello zaino. “Mi pierna? Normal, esta asi desde quatro anos. – mi dice” (La mia gamba? Normale, è così da quattro anni). La sua voce tradisce una strana serenità e i suoi occhi verdi mare ironizzano sull’espressione del mio volto, sorpreso dalla sua risposta. Ride quasi di gusto e inizia a raccontarmi.

Valerie ha 32 anni, viene dal nord della Francia, ma parla bene lo spagnolo. Quattro anni fa ha avuto un ictus. Dopo l’ennesima notte di follia in un locale, si è ritrovata in ospedale con la parte sinistra del corpo morta. Quando si è svegliata e ha capito, ha pregato di morire. Disperata e arrabbiata con la vita, ha cercato di scendere dal letto e di saltare dalla finestra. L’hanno presa in tempo. E in quei lunghissimi due mesi passati lì in ospedale si è trovata di fronte a sé stessa come non mai. 

Si riempiva sempre di qualcosa. Prima lo studio, poi il lavoro, e quella ricerca spasmodica di un modo per sentirsi viva, emozioni forti da inseguire per riempire i tempi morti e tacitare le domande che da dentro le salivano. Ma soprattutto quel senso di inquietudine che la tormentava. Non trovava riposo nelle relazioni, lei sempre così convinta che i suoi problemi fossero i più grandi, che le sue responsabilità fossero le più pesanti, che i suoi dolori fossero i più forti, non poteva avere spazio in sé per amare. Si consegnava agli altri per distruggersi, e così aveva la sensazione di essere viva. Così, prima il vino, poi il fumo, ma soprattutto gli uomini. “Ti puoi immaginare..”, mi dice mentre il suo sorriso fa a pugni con ciò che lei mi rivela di sé. Alla fine ovviamente ci aveva “lasciato le penne”, con una serata più folle delle altre.

Uscita dall’ospedale era stata accolta in una casa di cura per la riabilitazione. Sei mesi per ritrovare le poche funzioni recuperabili. Ma soprattutto sei mesi per incontrare alcuni operatori della comunità dell’Arca” di J. Vanier. E per iniziare lentamente a leggere la sua vita con occhi diversi. Prima la messa in discussione della sua filosofia: “La vita è una m…”, perché quotidianamente era a contatto con persone che, anche messe peggio di lei, ringraziavano per essere vivi e per sentirsi al mondo gratis. Poi l’accettazione di sé, della sua condizione e l’apertura di una leggerezza di vita che lei non aveva mai provato. “Non c’è nulla da inseguire nella vita, non c’è nulla da cui difendersi, ogni giorno ti porta il regalo di essere vivo senza averlo chiesto, e questo da una serenità che non si può descrivere”.

Mamma mia! Sono quasi spaventato dalla forza che emana e dalla tranquillità con cui la esprime. “Sono nata in una famiglia di fatto atea, anche se molto religiosa in apparenza. Mi hanno battezzato, ma non cresimata, per le mie già evidenti opposizioni. E quando, dopo un anno alla comunità dell’Arca” ho deciso di essere cristiana e ricevere i sacramenti ho fatto un patto con Dio. Non ho chiesto la guarigione, non l’ho mai pensato, questa è la mia croce che in parte mi sono meritata, ma che di sicuro è il mio modo di amare che mi è dato da vivere. Chiedo a Dio solo di poter fare questo cammino ogni anno per poterlo ringraziare di avermi salvata la vita, di averla riempita di verità”. 

Non trovo le parole per risponderle e con gli occhi gonfi la saluto e la ringrazio… all’ingresso di Viana, a pochi km da Logrono. Quelle due ore camminate con lei ripagano tutti i sette giorni di fatica che ho alle spalle. Lei quel giorno si è fermata lì, ma è molto più avanti di me…

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