A metà del guado

Si continua a dare per scontato che i luoghi di nascita della fede possano essere le parrocchie, le famiglie e la cultura , e non si vede che queste strutture, per generare fede, avrebbero bisogno di un anima nuova e forse, anche di organizzazione diversa che dia visibilità ad un anima nuova.
27 Giugno 2012

Di solito non lo faccio. Ma questa volta il tema è troppo importante e lo sento troppo sulla mia pelle per esimermi dalla fatica. Perciò ho preso “L’instrumentum laboris” del prossimo sinodo dei Vescovi, dedicato alla nuova evangelizzazione, in programma dal 7 al 28 ottobre prossimi, e me lo sono letto. Quasi sette ore! E già questo la dice lunga. Non tanto sull’ampiezza, necessaria su un tema così, quanto sullo stile del linguaggio che mi ha costretto più di una volta a ritornare sul testo e rileggerlo. 

Perché una cosa è certa. Forse i vescovi si trovano a loro agio con questo stile, ma i fedeli sicuramente no! E certo, non è un testo “ad gentes”, ma per addetti ai lavori, però la sua lettura mi ha lasciato nettamente l’impressione di un linguaggio che, nel tentativo di dire sempre tutto, si appesantisce e si accartoccia su sé stesso e finisce per parlarsi addosso. E se quegli stessi vescovi, al termine dei lavori, vorranno darci un testo per tutta la Chiesa, dovranno “lavorare” non poco sul loro linguaggio per rendersi leggibili.

E già questo segna la nota di fondo del documento. Come se la Chiesa si trovasse in mezzo al guado, in un passaggio difficile del suo percorso, nel tentativo di raggiungere l’altra sponda, ma fosse appesantita e legata ancora da mille incrostazioni che ne bloccano la marcia. Si dichiara il desiderio di cambiare linguaggio e forme di vita per essere più fedeli a Cristo e comprensibili dal mondo, ma si parte con una forma linguistica molto distante da questo obiettivo. E pure nei contenuti, il testo mostra spesso un equilibrio difficile da tenere tra il vecchio che non vuole morire e il nuovo che teme di avanzare.

La parte che più mi ha convinto sono i primi due capitoli, dove si indicano, il cuore della evangelizzazione (la riscoperta della fede in Cristo) e gli scenari attuali in cui la Chiesa è chiamata a riproporre Cristo. Sul piano delle idee è chiarissimo come la crisi attuale della Chiesa sia dovuta alla messa in disparte del rapporto con Cristo, come fonte e base della sua stessa esistenza. E quindi come il problema della nuova evangelizzazione non sia di strategie comunicative o tecniche relazionali, ma sia di sostanza: rinnovare la propria fede! “Considerare la propria fede come esperienza di Dio e centro della propria vita, è l’obiettivo che molte Chiese particolari legano alla celebrazione del Sinodo sulla nuova evangelizzazione per la trasformazione della vita quotidiana” (n. 96).

La prima conseguenza è che la nuova evangelizzazione parte da una riflessione critica della Chiesa su se stessa: “Questo serve come autocritica che il cristianesimo è invitato a fare su di sé, per verificare quanto il proprio stile di vita e l’azione pastorale delle comunità cristiane siano state realmente all’altezza del loro compito evitando l’immobilismo, attraverso una attenta lungimiranza” (68).  La seconda conseguenza è che il mondo attuale non può essere visto solo in chiave negativa, ma anche come fonte di possibilità nuove per la fede. E su questo dal n. 70 al 74 si vede davvero lo sforzo di segnalare questa direzione.

Nella seconda parte invece, il testo mi convince di meno. La metodologia di trasmissione della fede e le scelte pastorali ad essa connessa portano ancora troppo il segno dell’ambivalenza. 

Tra il n. 100 e il 104 si delinea la pedagogia possibile della fede oggi, e lo si fa ancora sulla falsariga della fede che dal 1500 a pochi decenni a ci ha accompagnato, quella della modernità. E qui io trovo una delle ombre maggiori del testo: non aver portato la riflessione sul cambiamento epocale in atto anche al livello di antropologia, dando per scontato invece che l’uomo post-moderno si percepisca allo stesso modo di quello moderno. 

In particolare dove si insiste ancora sul lato razionale della fede per la sua riscoperta e sui percorsi di conoscenza della stessa per il suo sviluppo (dal n. 100 al n. 121). Mentre è sotto gli occhi di tutti che oggi l’assenso di fede si posa molto di più sul dato emozionale e sensoriale che non su quello razionale. E non a caso infatti al n. 124 questo viene ammesso, ma senza riuscire a trarne tutte le conseguenze: “La carità è il linguaggio che, nella nuova evangelizzazione, più che a parole si esprime nelle opere di fraternità, di vicinanza e di aiuto alle persone in necessità spirituali e materiali”.

Ciò fa si che l’insistenza sul “dare ragione della propria fede” (citando 1 Pt 3,15), rischi di travisare il testo biblico. Lì si dice che siamo chiamati a rispondere della speranza che è in noi a chi ce ne chiede ragione. Questo significa due cose. Intanto che la speranza che è in noi si veda!! Se no nessuno può interrogarsi su di essa. E giustamente “L’Instrumentum” insiste sul rinnovamento della vita spirituale dei credenti. E secondo che noi diamo ragione della fede rispondendo ad una domanda che ci viene fatta su quel piano, cosa che il mondo oggi non fa certo molto! E quindi sono escluse quelle forme di evangelizzazione che anticipano la domanda dell’altro o si approcciano all’altro per convincerlo. E su questo invece “L’Instrumentum” è invece ancora ambiguo. (Vedi n. 35). 

Così pure quando si riconosce nella deriva relativista la radici di una serie di difficoltà per la fede di oggi (n. 152), indicando nel recupero del concetto di natura creata la base di una ripresa antirelativista. Però non si ha il coraggio di vedere se per caso anche noi abbiamo contribuito a questa deriva con una concettualizzazione essenzialista e dualista della natura umana, specie dopo Cartesio. 

Ma più si scende nel concreto e più l’ambiguità cresce. Nel quarto capitolo il rinnovamento della pastorale mostra in modo evidente il bisogno e la paura di cambiare la prassi pastorale dell’iniziazione cristiana, dove un residuo dell’idea che dare dei sacramenti fa comunque bene, non consente di decidere quello che molti desiderano: una nuova forma di “mistagogia” che accompagni tutta la vita del cristiano e non solo l’inizio. (n. 131-137).

Come pure l’ambiguità si nota quando al n. 139 si dice: “Inteso come strumento di proposta esplicita, meglio ancora di proclamazione, del contenuto fondamentale della nostra fede, il primo annuncio si dirige anzitutto a coloro che tuttora non conoscono Gesù Cristo, ai non credenti e a quelli che, di fatto, vivono nell’indifferenza religiosa”, mentre è evidente che sono proprio i “praticanti non credenti” o gli “atei pratici di ritorno” ad averne bisogno oggi.

Come pure si continua a dare per scontato che i luoghi di nascita della fede possano essere le parrocchie, le famiglie e la cultura (n. 107-117) e non si vede che queste strutture, per generare fede, avrebbero bisogno di un anima nuova e forse, anche di organizzazione diversa che dia visibilità ad un anima nuova. E la stessa cosa si può dire sul n. 146, dove le missioni popolari, la preparazione al matrimonio e i luoghi di sofferenza sono indicati come luoghi possibili per ravvivare la fede “smorta” di chi non la vive più. Mentre invece sia l’esperienza, sia le indagini statistiche ci dicono che questi luoghi faticano molto ad aprire spazi per Cristo. 

Mi piacerebbe davvero che i vescovi appendessero sopra le proprie porte, nelle stanze del sinodo il n. 54: “Il saeculum in cui convivono credenti e non credenti presenta qualcosa che li accomuna: l’umano. Proprio questo elemento dell’umano, che è il punto naturale di inserzione della fede, può diventare il luogo privilegiato dell’evangelizzazione”. Io prego per questo.

 

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