La bacheca del fine vita

Su Facebook che sospende Adinolfi e sullo stile di una presenza sui social in un dibattito come quello aperto dal gesto di dj Fabo
1 Marzo 2017

Non è la prima volta che il profilo di Mario Adinolfi, direttore della testata “La Croce” e fondatore del Popolo della Famiglia, viene bloccato da Facebook. Questa volta è successo a seguito della pubblicazione di un lungo post a proposito della scelta di Fabio Antoniani (dj Fabo) di andare in Svizzera per darsi la morte. Il post conteneva la frase: “Volete sfruttare l’onda emotiva per ottenere questa vergogna? Hitler almeno i disabili li eliminava gratis”.

Adinolfi non è esattamente un uomo di dialogo. È un cattolico che appoggia sulle proprie granitiche certezze una vis polemica efficace. Ma, personalmente, trovo quel posto particolarmente offensivo, per Antoniani, per la moglie e gli amici, per me, cittadina che desidererebbe su questi temi trovare disponibilità ad un confronto sereno. Soprattutto dagli altri cattolici.

Comunque, sia il post che l’intervento censorio di Facebook hanno scatenato le reazioni del web, reazioni che si sono mosse tra due poli: chi ha eletto Adinolfi ad eroe della libertà di espressione nonostante tutti e nonostante tutto, e chi, giudicando inaccettabile il post, ha lodato la tempestività di Facebook nell’intervenire. La notizia della sospensione – visto che Adinolfi per un mese non potrà pubblicare – l’ha data in un post la moglie, Silvia Pardolesi, che ovviamente sposa la prima posizione: «È vergognoso che ancora una volta, per un’opinione difforme rispetto al politically correct, mio marito Mario sia stato censurato da Facebook. Per un mese non potrà né postare né rispondere a messaggi privati. Forza amore».

Il caso si inserisce in un ampio dibattito sull’hate speech (i discorsi d’odio) e sulle fake news (le bufale) che imperversano su internet e in particolare sui social, con gravi conseguenze sociali, etiche, educative e anche politiche, come è risultato evidente nelle ultime elezioni americane. Da una parte c’è chi (soprattutto in Europa) chiede alle piattaforme social di assumersi almeno in parte la responsabilità dei contenuti, intervenendo su quelli più violenti o falsi senza ombra di dubbio. Dall’altra chi (soprattutto in America), difende ad oltranza la libertà di espressione, lasciando agli abitanti della rete la responsabilità dei propri contenuti e quella isolare chi pubblica contenuti inaccettabili.

Nel frattempo le grandi piattaforme hanno adottato delle policy, in base alle quali decidono se e come intervenire. Le regole, si sa, sono rigide, e sono tali se vengono applicate a tutti. Non si può chiedere ad un team – che, ricordiamolo, agisce su segnalazione degli utenti, in questo caso di Facebook – di distinguere tra una guerra e una crociata e di giustificare la seconda pur condannando la prima. Una guerra è una guerra, anche se la fanno i cattolici e un insulto è un insulto.

A parte questo, ci sono alcune considerazioni a margine che vorrei fare.

La prima riguarda non solo l’opportunità, ma anche la necessità di ricorrere ad argomentazioni così radicali su un tema delicato. Ce n’è bisogno? A che serve? L’unico messaggio che arriva è che non c’è possibilità di riflessione, non c’è possibilità di dialogo su questi temi. Cito a questo proposito un passaggio del “Messaggio per la 51ma Giornata delle Comunicazioni sociali 2017”: «Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire». Il linguaggio che Adinolfi ha usato in questo post macina zizzania. È rancore che suscita rancore, violenza che suscita violenza.

E questa considerazione ci porta alla seconda, che riguarda il senso di responsabilità rispetto a ciò che si pubblica. L’esperienza (e anche le ricerche) ci dice che i ragazzi non si rendono delle conseguenze di ciò che pubblicano, rilanciano e condividono. Molto bullismo (e quindi molto dolore per le vittime) nasce da qui. Anche gli adulti spesso non ne sono consapevoli e da tempo agenzie educative e realtà ecclesiali si interrogano su come educare ad un uso consapevole degli strumenti di comunicazione che le nuove tecnologie ci mettono tra le mani. Adinolfi è un giornalista, un comunicatore di professione, sa cosa sta facendo. Post come questi sono annoverabili tra i buoni esempi di comunicazione responsabile?

Torno a citare papa Francesco nel messaggio di cui sopra: «Vorrei dunque offrire un contributo alla ricerca di uno stile comunicativo aperto e creativo, che non sia mai disposto a concedere al male un ruolo da protagonista, ma cerchi di mettere in luce le possibili soluzioni, ispirando un approccio propositivo e responsabile nelle persone a cui si comunica la notizia». Vale per i giornalisti che dimenticano sistematicamente le buone notizie per spazio solo a quelle cattive. Ma vale anche per tutti coloro che sui social prendono la parola. E facendolo, dettano uno stile che è, già di per sé, comunicazione, al di là dei contenuti specifici.

 

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