Dio non è in alcun modo responsabile, direttamente o indirettamente, del male morale. Però nella sua onniscienza lo permette e ne sa trarre, in modo misterioso, del bene per i suoi Figli. (Cfr. CCC 311). Quindi il bene possibile, derivante da un male, è opera di Dio. Non nostra! Noi al massimo possiamo collaborare con Lui. Ma se la nostra relazione con lui non è al centro della nostra vita e non è coltivata nell’amore, noi non possiamo fare nulla. Questa, credo, debba essere la premessa necessaria, da tenere sempre aperta, se vogliamo rispondere alla domanda sul tema di questo mese. Tradotto significa: senza preghiera, ascolto della parola, riconoscimento dei nostri peccati, servizio ai poveri, non si può pensare di aiutare Dio nel trarre il bene da questo male. E forse non lo si può nemmeno riconoscere tale bene.
A partire da qui forse si può tentare di individuare qualche traccia per provare a indicare almeno gli ambiti possibili di questo bene.
La prima traccia, forse, va nella direzione di un ri-costruzione di una antropologia maggiormente biblica e meno neoplatonica. Specie per ciò che riguarda il recupero positivo del valore teologico dell’eros. È fuor di dubbio che da secoli ci siamo abituati ad un atteggiamento spirituale in cui l’eros è visto con sospetto e deve essere tenuto a freno, persino all’interno della relazione sponsale. Come se di per sé non fosse compatibile con la fede e la santità. Ciò ha prodotto una abitudine formativa e spirituale in cui, invece di lavorare per la liberazione della dimensione erotica della persona, e poterla così integrare poi in tutta la persona intera, si lavora per il suo contenimento, quando non repressione. Così facendo però si rende impossibile proprio l’azione di integrazione di una persona che voglia essere adulta e matura. Ciò vale sia per chi è sposato, sia per chi è consacrato.
Ma, mentre i primi possono nascondere il disequilibrio che ne deriva sotto una attività sessuale di coppia non proprio appoggiata sull’amore, gli ultimi devono dirottare questa dimensione erotica in altre direzioni. Cosa estremamente difficile se in quella persona l’erotismo non è mai stato liberato. In queste condizioni, prima o poi, la necessità di una compensazione spingerà questa persona ad una trasgressione più o meno grave, come atto necessario per poter mantenere un equilibrio precario e fragile.
A margine di questo va segnalato che queste condizioni di disequilibrio in cui l’eros non è libero, non sono così nascoste da non potersi intuire in anticipo. Anzi esistono strumenti, in area psicologica, capaci di riconoscere i segnali di tali squilibri, ben prima che si traducano in azioni effettive. Forse è giunto il tempo di cominciare ad utilizzare tali strumenti, specie all’interno dei percorsi di formazione per persone in vocazione di speciale consacrazione.
La seconda traccia va invece in direzione di una ecclesiologia meno clericocentrica e più Cristocentrica. Anche qui è fuori di dubbio che il tentativo del vat 2 di promuovere una ecclesiologia di comunione è abbastanza fallito. Soprattutto nel rapporto prete fedeli. Spesso il prete vive la comunità come altro da sé e vive sé stesso come l’uomo solo al comando. Dove il comando nasconde la solitudine. Ed è inutile chiedere al prete di avere l’equilibrio del monaco, perché non è un monaco e nemmeno vuole e può esserlo. Ma questa chiesa concreta spesso gli chiede di essere un monaco, senza dargli le condizioni e gli spazi di un monaco. Ovviamente quindi una solitudine subita non è mai una condizione compensata. E perciò apre la porta alle compensazione che, maggiormente in quella persona, sono legate a bisogni insoddisfatti.
Ma qui credo ci possa essere anche uno spazio e una responsabilità dei laici. Non ci si può lamentare del clericalismo se per vivere i propri carismi nella chiesa chiediamo sempre il permesso al clero. Forse, il calo delle vocazioni sacerdotali può avere anche questo risvolto positivo: cari laici, datevi da fare senza aspettare l’imbeccata del prete, visto che il prete ci sarà sempre meno.
La terza traccia va invece in direzione di una rilettura più misericordiosa e meno giuridico-economica del peccato. Anche qui è indubbio che l’abitudine a vedere il peccato come qualcosa che va estirpato, allontanato da sé, pagando perché sia allontanato da noi, o perché si combattuto con violenza, ha prodotto l’impossibilità di assumerlo davvero nel proprio cammino di fede e di poterlo anche dichiarare ecclesialmente. Questo spinge fortemente nella direzione di un occultamento, ai propri occhi e a quelli degli altri, dei propri peccati, soprattutto se diventati ormai vizi. Occultamento che non di rado arriva alla negazione, strada maestra per l’inizio di una doppia vita etica. Perché ciò che mettiamo fuori dalla porta rientra dalla finestra, facendo danni.
La chiesa può e deve convertire il proprio modo di stare nel peccato. Guardando a Cristo e al suo modo di rapportarsi col peccato. Francesco, di fronte alle famiglie delle vittime di abusi ha cercato proprio questo, di dichiarare la chiesa peccatrice e di provare a stare dentro a questo peccato secondo la logica di Cristo. Mai va cercato il peccato, sempre va compreso, ogni volta va amato, cioè assunto, sia che sia il nostro sia che sia degli altri. E infine va rimesso dentro al rapporto d’amore con Dio. Allora sarà Dio a insegnarci la strada per uscire dal peccato. Perché il peccato è sempre un bene impazzito. Ucciderlo, allontanarlo, pagare per il suo allontanamento, vincerlo con la violenza fa morire anche quel poco di bene che dentro di lui si nasconde. Assumerlo, comprenderlo, e affidarlo a Dio permette a quel bene di recuperarsi.
Tradotto significa assumersi anche le responsabilità del male prodotto e offrire tutto quello che ci è possibile perché le vittime possano davvero provare a recuperare il recuperabile.
Tradotto vuol dire anche che un prete abusatore non può essere lasciato solo. Va assunto, compreso e affidato a Dio, da parte di una comunità che continui ad amarlo, in un percorso di recupero serio lungo e professionale. E nel frattempo ovviamente va tenuto lontano dalla pastorale attiva, offrendogli un tempo di riflessione, penitenza e preghiera.
Abbiamo percorsi e comunità che sanno fare questo?