Mi sono preso qualche giorno per riflettere, dopo aver letto il comunicato stampa della Corte Costituzionale del 25 settembre scorso sull’aiuto al suicidio, logica conseguenza di ciò che la stessa Corte aveva già sentenziato nell’ordinanza 207 del 24 ottobre scorso. Qui era stato distinto l’aiuto alla presa di decisione del sudicio, che continua a restare reato anche ora, dall’aiuto nell’esecuzione di un suicidio già deciso e voluto dal morente, che invece viene depenalizzato.
Nella sostanza la Corte afferma che l’istigazione al suicidio resta reato, affinché la volontà individuale sia protetta nel momento della presa di decisione, e poi, in nome della medesima volontà, si permette che essa venga surrogata da quella di un altro, che l’aiuta a realizzare ciò che vuole, perché da sola, la volontà del morente, non riesce a realizzarsi.
Il nocciolo duro della motivazione di questa scelta sta, quindi, nel garantire l’assoluta intangibilità della volontà individuale del morente, anche al di là della indisponibilità del suo corpo a realizzare tale volontà. Volontà che diviene così il valore primo, a cui tutto va riferito, e perciò investito quasi di un aurea di sacralità. Il che comporta una evidente contraddizione: se la volontà individuale fosse davvero assoluta non avrebbe bisogno di essere surrogata da un’altra volontà per realizzare quello che sceglie. Proprio la legittimazione, fatta in questo modo, dell’aiuto al suicidio, dichiara la contraddizione del principio su cui la sentenza si appoggia.
Forse sarebbe stato diverso se, invece, la sentenza avesse giustificato l’aiuto al suicidio in nome della condivisione e della solidarietà umana di fronte alla sofferenza. Ma di questo non c’è traccia, sia nella sentenza del 2018, sia nella decisione di qualche giorno fa. La Corte cita la questione della sofferenza “insopportabile” solo come motivazione compiutamente soggettiva, interna alla costruzione della decisione del morente. Ma di essa non c’è più traccia quando si va a giustificare l’aiuto al suicidio già deciso.
Nel caso in questione, tra l’altro, anche un dato di realtà assunto dalla Corte è indicativo di questa prospettiva: Dj Fabo aveva chiaramente rinunciato volontariamente alle cure palliative, non accettando la sedazione profonda, dimostrando così che la sua decisione di voler morire era legata alla sua volontà di porre fine alla sua vita, ormai senza prospettive e non semplicemente alla insopportabilità della sofferenza. La stessa reazione di Marco Cappato, dopo quest’ultima decisione della Corte, va nella stessa direzione. Non ha detto: da oggi siamo tutti più solidali nella sofferenza, ma: “da oggi siamo tutti più liberi”. Tradotto, ci è maggiormente permesso di credere nella nostra assoluta possibilità di autodeterminazione.
Ora, al di là della logica giustificatrice della Corte, la realtà continua a ricordarci, invece, che la volontà del singolo non è mai assoluta. Nessuno vuole sé stesso e nessuno decide il patrimonio di base, fisiologico, familiare, sociale e culturale con cui e in cui viene al mondo. Poi, anche una volta cresciuti, nessuno può compiere scelte volontarie esenti in modo assoluto da influenze, pressioni e inclinazioni ambientali. Ma soprattutto non esistono scelte non dipendenti dal senso globale che si conferisce alla propria vita, che è chiaramente un costrutto culturale e perciò profondamente influenzato dall’ambiente.
Questo lo sanno bene coloro che, ad esempio, di professione si occupano di condizionare, manipolare e dirigere da fuori le volontà di milioni esseri umani, in nome del Dio “mercato globale”, da cui cercano solamente il proprio tornaconto. Gli stessi che si rallegrano se l’illusione che la volontà dei singoli sia assoluta viene perpetuata, perché così il “consumatore”, unica parola chiave con cui definiscono l’uomo, darà per sua la scelta di ciò che altri gli hanno fatto scegliere.
La riaffermazione operata dalla Corte del dogma non scritto della nostra cultura post – moderna (l’intangibilità della volontà individuale), mette, invece, per l’ennesima volta in ombra il vero tabù che questa stessa cultura non riesce e non vuole affrontare. Che non è più quello della morte, come poteva essere nella tarda modernità, ma quello della sofferenza e della mancanza di senso: come lo si approccia oggi? come lo si attraversa? come lo si può ri-significare in questa epoca? Problema enorme che merita una nuova, prossima, riflessione.