Di fronte al “fine vita” una parte del mondo cattolico sembra investire la proprie energie nel tentativo di erigere un baluardo giuridico alla “cultura della morte” e per ora, pare, sia stato un tentativo abbastanza fallimentare. Ciò anche perché il problema, prima che giuridico, è chiaramente culturale. Quando, però, il mondo cattolico prova a “giocarsi” sul piano della cultura, sembra solo capace di “annacquarsi” dentro ai tre paradigmi già mostrati qui. http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=3489
Chi si accoda al primo paradigma, sottolinea l’assoluta intangibilità, da parte dell’individuo, del dato naturale come luogo della volontà di Dio. Anche la morte, che, pur essendo effetto del peccato dell’uomo, è indisponibile alla libertà dell’uomo stesso ed entra a far parte di quel “destino” ineluttabile che ci sovrasta. La sofferenza, anch’essa frutto del peccato, è inevitabile e su di essa la volontà individuale non può avere molto margine di scelta. Qui la volontà divina tende a schiacciare la libertà dell’uomo che diventa un ingranaggio del determinismo soprannaturale.
Nel secondo paradigma, l’individuo che si pone obiettivi in sintonia con il bene proclamato dalla Chiesa, si autorizza con questi a conferire senso alla sua vita e crede che Dio sia il suo aiuto in questo tentativo. La fede serve a realizzare sé stessi, fosse anche in funzione del salvarsi l’anima. La sofferenza è sensata se aiuta questo tentativo, altrimenti non può essere accolta. La volontà del singolo trova un compromesso con quella della di Dio in favore gli obiettivi dell’uomo, anche buoni magari. Ma così Dio serve a noi e non viceversa. Così anche la morte entra a far parte della disponibilità della volontà individuale e può essere desiderata e cercata, se gli obiettivi non sono stati raggiunti o se la sofferenza è tale da non permettere più di raggiungerli.
Quei cattolici che si “sposano” col terzo paradigma, “imboscano” molto la dimensione ultraterrena della fede, spostando l’accento di essa sull’esperienza emotiva che in molti modi può essere vissuta, qui e ora, nel presente. Miracolismi ed emozionalismi fanno da sfondo ad un sorta di edonismo cattolico esistenziale, in cui la morte e la sofferenza vengono messe da parte, e il rapporto con Dio diviene uno strumento per potenziare l’intensità del gusto della vita e del suo godimento. La sofferenza è inutile; diviene sensata solo se permette maggiore “consumazione” della vita, altrimenti deve essere eliminata, dal momento che Dio stesso non la vuole. Qui la bulimia umana della vita sovrasta la volontà di Dio e la piega al suo fine.
In ogni caso, nei tre paradigmi, Dio e uomo non sono sintonizzabili pienamente. O Dio azzera la volontà individuale, o la volontà individuale azzera quella di Dio. Credo profondamente che l’insignificanza culturale del cattolicesimo sul tema del fine vita dipenda molto anche da questo: condivide la stessa idea dei laicisti, cioè che uomo e Dio sono in contraddizione tra loro. In realtà la cultura post – moderna che ha rinunciato a Dio sta consumando anche l’uomo stesso, fino al suicidio. Proprio questo dovrebbe farci pensare che Dio e uomo stanno o cadono insieme. L’anelito profondo che sale da questa condizione è, infatti, che qualcuno sia in grado di mostrare una via che consenta di salvare e l’uomo e Dio.
Noi sappiamo che il vangelo ci indica con chiarezza questa via: “chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.” (Mt 16,25). Cioè il senso della vita di un cristiano non consiste nel “godere” la vita per sé, e nemmeno nel tentare di realizzarla, raggiungendo i propri obiettivi, fosse anche per salvarsi l’anima. Il senso invece consiste nello smettere di cercare un senso e consegnare la vita per amore Suo. E questo atto non può mai essere un atto “obbligato” dal destino, ma è e resta sempre un atto libero che la volontà individuale decide. “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo.” (Gv 10, 17-18). Dentro a questa prospettiva di amore liberamente scelto anche la sofferenza e la morte possono assumere significato, perché possono essere offerte per amore, e così permettere di sposare la libertà di scelta dell’individuo e la volontà di Dio, senza calpestare nessuno dei due.
Ma se prendiamo questa linea di significato, allora dobbiamo seriamente chiederci: possiamo imporre moralmente a chi non ha compiuto questa scelta spirituale, cattolico o meno che sia, di vivere una sofferenza e una morte che per lui non possono avere senso? Dio impedisce agli uomini di peccare? O accetta il loro peccato e continua ad amarli comunque, nella infinita speranza che questo amore faccia percepire loro che tutto, ma davvero tutto, può essere vissuto se è un’offerta a chi ci ama infinitamente? Possiamo allora chiedere che la legge civile impedisca di peccare a chi non ha una fede sufficiente per donarsi a Dio, in condizioni non scelte da lui?
A cambiare la cultura non saranno leggi ottenute con compromessi politici e battaglie giuridiche. Sarà solo una cultura della vita, testimoniata come offerta di amore, libera e liberante, a chi ci ama proprio per la nostra capacità di scegliere.