Per riflettere su come si può ri-significare la sofferenza e la mancanza di senso oggi, vale la pena indagare il rapporto culturale tra vita, morte, sofferenza e senso. Nella nostra società, ormai molto frammentata, non esiste un solo paradigma attraverso cui le persone provano a “legare” questi concetti. A mio avviso se ne possono individuare almeno tre.
Un piccolo gruppo di persone, forse residuale, con poca incidenza culturale, o forse votato alla resistenza, salvaguarda strenuamente l’idea che la vita, fino a che esiste, sia il bene assolutamente prioritario, sopra ogni altro e che la morte sia, quindi, la cosa peggiore che possa capitare. La sofferenza è considerata inevitabile pedaggio del vivere, ma può avere un senso positivo, perché, pure lei, può consentire di dare corpo al senso della vita: vivere l’universale struttura del cosmo (o la volontà di Dio, se ci si crede), che si estende anche oltre la morte, ma sulla quale l’uomo non ha alcun potere di scelta e di modifica.
Si vive, così, come se la libertà individuale nella costruzione del senso della vita tenda ad essere zero, e perciò la morte va accolta solo quando arriva, attraverso la finitezza della natura. In cambio, però, si ritrova un senso molto denso, cosmico o divino, alla vita stessa, ma che ha tutte le sembianze di un destino ineleggibile e immodificabile.
Un altro gruppo di persone, molto più consistente del primo, capace di incidere culturalmente molto a livello sociale, ipotizza, invece, che la vita vada vissuta individualmente, e non all’interno di un senso, cosmico o divino, prefissato. Essa va fruita per raggiungere i propri obiettivi esistenziali, cioè va “realizzata”, traendo senso solo dal raggiungimento di tali obiettivi. Che si tratti del successo, dei soldi, del potere, o di esplicare le proprie capacità, o di essere una persona onesta, ecc…, in ogni caso si ipotizza che la sofferenza possa essere vissuta solo se è in grado di farci progredire nella realizzazione di tali obiettivi, altrimenti va evitata.
Una conseguenza di ciò, è che la morte inizia ad essere sentita anche come una possibile scelta individuale, non essendo più concepita solo come esito inevitabile di un “destino” prestabilito. Per coloro che non riescono a realizzarsi essa può rappresentare una via di uscita dal fallimento esistenziale, magari recuperabile nell’aldilà. Mentre, per coloro che si sentono realizzati, la morte può diventare o uno strappo esistenziale difficilmente affrontabile, che apre un lacerante “perché si deve morire?”, oppure una adeguata uscita di scena, auto ammirando il risultato della propria vita, lenito dalla speranza che altri possano prolungare, nell’azione o nel ricordo, la propria soddisfazione esistenziale. In ogni caso, in questo secondo paradigma la consapevolezza della morte non entra a far parte della costruzione del senso della vita. Si vive a prescindere dal fatto che si deve morire.
Negli ultimi tre decenni si è affacciato, poi, un terzo paradigma ben presto dilagato in tutta la società e che ha ben presto aumentato il numero dei suoi sostenitori. Sono coloro che sottoscrivono ciò che uno dei miserabili di V. Hugo afferma: “Morire non è nulla, non vivere è spaventoso”. La vita è adesso, qui e ora, non più nella realizzazione di un obiettivo futuro, per quanto mio. Non c’è più qualcosa di sé da realizzare. La vita nel suo complesso è un mistero inestricabile che mostra di non avere senso. Il significato possibile che resta è solo la collezione di emozioni, di ogni tipo, di ogni intensità, di ogni varietà, che vanno assaporate, godute e consumate nel presente.
Ma se la vita è un gioco a termine, fine a sé stesso, la morte appare solo come un dato di fatto. Non ha più senso interrogarsi su di essa, come su ciò che sta dopo, perché la vita è adesso. La cosa peggiore non è morire, perciò, ma essere limitati in questo tentativo di giocare al meglio, prima della morte. Quindi, tutto quello che si oppone a ciò va rimosso, in primis dolore, sofferenza, indisponibilità del dato fisico, ecc. Cose sopportabili in alcuni casi, solo per continuare a “giocare”, ma appena possibile, vanno eliminate dalla nostra vita. Si vive senza nemmeno ipotizzare che esista la pienezza della vita, ma sempre in battaglia con ciò che ne limita il godimento nel presente.
Di fronte a questo contesto culturale, è abbastanza evidente che la sentenza ultima della Corte costituzionale sul fine vita, non fa altro che recepire la linea di tendenza maggioritaria oggi, fatta dal secondo e dal terzo paradigma, mentre il primo risulta essere irricevibile, perché non riconoscere valore alla volontà individuale nella costruzione del senso della vita.
Oggi, quindi, è molto più vero che la legge segue la cultura, più che indirizzarla. Ciò spiega come mai, un’azione che punti essenzialmente sul piano giuridico, per modificare una legge, non può avere efficacia. Se si vuole ciò, l’azione primaria va posta sul piano culturale. Ma il mondo cattolico, quando fa questo, si “annacqua” in uno di questi tre paradigmi, o riesce a mostrarne un altro? E il vangelo cosa ci chiede su questo? Proverò in un prossimo articolo a lasciare una possibile proposta.