Con la sua enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI cita, riprende e ripropone in una sintesi attualizzata al nuovo contesto della globalizzazione le encicliche sociali di Paolo VI (Popolorum progressio e Octogesia adveniens) e di Giovanni Paolo II (Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis, Centesimus annus).
Nell’introduzione Benedetto XVI descrive le direttive propulsive di ogni azione morale che sono la carità nella verità, “la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (1), insieme a due criteri orientativi, tra gli altri, quali la giustizia e il bene comune.
Se Paolo VI affermò che la giustizia è “la misura minima della carità”, in quanto la carità esige la prima, quale “riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli”, dobbiamo riconoscere che la carità supera la giustizia stessa, perché non si ferma ai rapporti normati dai diritti e dai doveri, ma arriva a relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione, completando l’esigenza della giustizia con la logica del dono e del perdono (6).
Queste parole mi hanno riportato alla memoria del discorso del giovane angolano Domingos, il quale, davanti a Giovanni Paolo II e due milioni di giovani nella veglia della GMG a Roma nel 2000, aveva affermato che l’unica via per dare una svolta al conflitto civile nel suo paese lui la coglieva nella volontà di concedere perdono agli uccisori di suo fratello: «volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni» (7).
Citando Paolo VI, in quella che definisce «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea», ne ricorda l’affermazione fondamentale in Populorum progressio: l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo, quello che conduce ad uno sviluppo umano integrale (8). La Chiesa non ha soluzioni tecniche né pretese ad intromettersi nella politica degli Stati, ma una missione che la guida: la fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Con la sua dottrina sociale, al servizio della verità che libera, può aiutare un’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano nelle sfide emerse in un mondo di progressiva e pervasiva globalizzazione (9).
Nel primo capitolo l’enciclica richiama il messaggio della Populorum progressio, nel suo legame con il Concilio Vaticano II e in particolare con la Costituzione pastorale Gaudium et spes.
Due grandi verità sono comunicate in questa lettera. La prima è che tutta la Chiesa, quando annuncia, celebra e opera, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo. La seconda verità è che l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione. Non la sola dimensione “storica”, ma anche la prospettiva di una “vita oltre la vita”. Senza questa, si rischia di ridursi al solo incremento “terreno” dell’avere, perdendo le motivazioni verso beni più alti quali quelli dello sviluppo dei popoli. Un tale sviluppo dipende, dunque, anche dalla dimensione trascendente dell’uomo e, si noti bene, questo è il motivo fondante per il quale le istituzioni non sono in grado da sole di poterlo garantire e realizzare. Lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti (11; cf. anche 16-18).
Paolo VI comprese chiaramente come la questione sociale fosse diventata mondiale e colse il richiamo reciproco tra la spinta all’unificazione dell’umanità e l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità (13). Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), egli trattò il tema del senso della politica e del pericolo costituito da visioni utopistiche e ideologiche che ne pregiudicavano la qualità etica e umana. Dall’ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia (14).
Benedetto XVI cita anche altri due documenti del magistero di Paolo VI, non strettamente connessi con la dottrina sociale, l’Enciclica Humanae vitae (1968) e l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), le quali inquadrano il legame profondo esistente tra lo sviluppo dei popoli e la difesa della vita umana e tra la promozione umana e l’evangelizzazione (15).
A questo punto, diventa decisivo domandarsi quali sono le cause del sottosviluppo. Per Paolo VI queste non sono semplicemente di ordine materiale. Una delle cause è quella della mancanza di volontà verso l’attuazione della solidarietà e la mancanza di un pensiero volto ad un nuovo umanesimo. La mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli è, oggi come ieri, il drammatico ostacolo alla realizzazione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, di questo umanesimo integrale. La società globalizzata ci rende sempre più vicini ma questo non ci rende fratelli. La ragione da sola stabilisce le basi per una uguaglianza e una convivenza civile ma questo non basta a fondare una fraternità. Questa ha origine solo dalla dimensione trascendentale che si richiama ad un solo Padre di cui siamo tutti figli: la realizzazione di un’autentica fraternità è dunque necessaria per realizzare lo sviluppo integrale dell’uomo e dei popoli (19).
Nel secondo capitolo della Caritas in veritate Benedetto XVI aggancia il messaggio sullo sviluppo di Paolo VI al contesto del primo decennio del Terzo Millennio, a quarant’anni dalla Populorum progressio. L’analisi del papa bresciano è articolata perché, partendo dall’obiettivo di sconfiggere fame, malattie e analfabetismo (oggi tutto ritorna nell’Agenda ONU 2030), inquadra le dimensioni economica, sociale e politica, auspicando che “i popoli della fame” si affranchino dalle loro “dipendenze” per assurgere come soggetti protagonisti in tutti questi aspetti.
È innegabile che ci sia stato uno sviluppo che ha permesso a miliardi di persone di uscire dalla miseria e a diversi paesi di divenire economie “emergenti”. Ma non possono essere negati gravi distorsioni che provocano drammatici problemi: «le forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri sull’economia reale di un’attività finanziaria mal utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare soluzione a problemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI» (21).
Indubbiamente, oggi, la linea di demarcazione tra Paesi ricchi e poveri non è più così netta come ai tempi della Populorum progressio. Di fatto, cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei paesi ricchi aumenta il numero di coloro che cadono in povertà. In quelli emergenti e non ancora emergenti perdurano situazioni di miseria disumanizzante. I diritti dei lavoratori vengono calpestati sia da aziende locali come da grosse multinazionali. Il diritto immateriale di protezione della conoscenza intellettuale, specie in campo sanitario, pone pesanti barriere allo sviluppo da parte dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri (pensiamo alle multinazionali farmaceutiche) (22).
Giovanni Paolo II chiese che, dopo il crollo del sistema del comunismo reale, venisse riprogettato un nuovo modello globale di sviluppo, ma questo non è avvenuto (23). Paolo VI poteva già affermare che la questione sociale era una questione mondiale, ma al suo tempo la gestione dell’economia avveniva in gran parte all’interno delle politiche degli Stati nazionali, oggi superate dall’integrazione mondiale provocata dalla “globalizzazione” (24).
La delocalizzazione della produzione ha avuto la conseguenza di ridurre i sistemi di protezione e di previdenza sociale, con la perdita di lavoro in alcune aree, non raramente accompagnata dallo sfruttamento dello stesso in altre aree. Le stesse organizzazioni sindacali sono divenute sempre meno incisive a causa di questi sviluppi. Con conseguenze negative anche nella sfera psicologica, affettiva e familiare (25) e del rapporto sempre più “eclettico e appiattito” tra culture (26). La fame continua ad essere un fenomeno di cui soffre ancora una parte numerosa dell’umanità. Le sue cause sono in gran parte dovute all’irresponsabilità delle politiche nazionali ed internazionali non impostate sul lungo periodo e senza promozione di politiche agricole e investimenti adeguati a riguardo (27).
Benedetto XVI ritorna anche sulla necessità del rispetto della vita, perché sia garantito un pieno sviluppo dei popoli, denunciando i mali dell’aborto, delle politiche di sterilizzazione e dell’eutanasia (28). Altro aspetto di negazione dell’autentico sviluppo è quello legato alla negazione del diritto alla libertà religiosa. Fanatismo, indifferenza religiosa, ateismo pratico sottrae allo sviluppo dei popoli le loro risorse spirituali ed umane (29).
Paolo VI aveva visto con chiarezza che tra le cause del sottosviluppo c’è una mancanza di sapienza, di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi. L’eccessiva settorialità del sapere, la chiusura delle scienze umane alla metafisica, le difficoltà del dialogo tra le scienze e la teologia sono di danno non solo allo sviluppo del sapere, ma anche allo sviluppo dei popoli, perché, quando ciò si verifica, viene ostacolata la visione dell’intero bene dell’uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano. L’«allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» è indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici (31).
[1^ parte]