Unorthodox e noi: quando la religione soffoca l’uomo (e Dio).

Qualche riflessione a margine della serie "Unorthodox", che rappresenta un culto disumanizzante e un Dio nemico della libertà. E a noi dice qualcosa del nostro modo di essere Chiesa?
10 Luglio 2020

Ha destato scalpore e dibattito la breve e recente serie Netflix titolata Unorthodox, divisa in quattro puntate e prima serie tv ad avere anche parti dialogate in yiddish, proprio per il suo focalizzarsi sul mondo ebraico ultraortodosso, dove l’antica parlata europea è ancora in uso.

La vicenda, tratta dal libro Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots di Deborah Feldman (2012), è incentrata sulla figura della giovane Esther Shapiro (interpretata da un’ottima Shira Haas), in fuga dalla comunità ultraortodossa di Williamsburg (Brookling) verso Berlino, alla ricerca della madre (a sua volta fuggita anni prima dal mondo hassidico) e, soprattutto, di una libertà a lei negata per troppo tempo. Sulle sue tracce, il marito Yanky e il cugino del marito, Moishe, uomo di finte appartenenze e ipocrisie profonde.

Così, tra continui passaggi tra il viaggio di Esty e il suo passato, lo spettatore entra nel mondo dell’estremismo religioso, dove la donna è, sostanzialmente, una mera incubatrice (continue le pressioni su Ester perché non ‘riesce a rimanere incinta’), sottoposta ai voleri dell’uomo (come la suocera, tremendamente invadente, esplicita in riferimento a Yanki, principe e re della famiglia) e non degna di istruzione (perché istruire chi è destinato solo a procreare?), fino agli estremi: alle donne non viene permesso nemmeno cantare.

Qui tutto ruota attorno al rito: preghiere, funzioni, vita quotidiana interamente ritmata dalla norma religiosa e dal distanziamento dagli impuri, cioè da tutti gli altri uomini che non seguono la legge ebraica.

Anche la sessualità è vista come un dovere da compiere per Dio, senza nessun tipo di tenerezza (il primo atto sessuale sempre rimandato perché vissuto male è emblema di una visione distorta dell’affettività).

Nata e cresciuta in quel mondo – un mondo che sente pulsare ancora il trauma collettivo della Shoah – a un certo momento Esty capisce che la sua vita non sarà mai all’altezza delle aspettative degli altri (ma chi lo sarebbe?) e all’ipocrisia preferisce la verità, e quindi la fuga, per cercare se stessa, per cercare un mondo dove l’essere umano sia al centro. Arriverà a Berlino, scontrandosi subito con un mondo totalmente diverso: conosce coppie gay, il sesso è fatto ‘per piacere’, le donne possono istruirsi, il cibo è libero. È un impatto violento, che provoca nella ragazza smarrimento, tentazione del ritorno, fino alla definitiva rottura con il marito, disposto a cambiare, ma non in tempo (bellissimo anche il cammino di formazione di Yanki, parallelo a quello della moglie).

Indubbiamente vi è qualche esagerazione nella serie, sia nel dipingere il mondo ultraortodosso (emerge poco la millenaria sapienza della tradizione ebraica), sia nel raffigurare il XXI secolo nelle sue tendenze più di rottura, ma spingere su pedali opposti permette di mettere in luce il nucleo dei due mondi, soprattutto di quello hassidico.

Quello che rimane al centro, oltre alla questione femminile, è la questione religiosa: che Dio è quello a cui Esty è stata educata? Lo dice bene la protagonista in un dialogo: «Dio si aspetta troppo da me». È questa la chiave di lettura del tema religioso: il Dio di Williamsburg è un Dio che ha sommerso l’uomo di regole e divieti, da rispettare con devozione totale, pena il ritiro della sua benevolenza. È dunque un Dio che si aspetta sempre un uomo puro, fedele, perennemente prono ai precetti religiosi. In tutto ciò, manca un vero spazio di libertà, e perciò di umanità. Il Dio da cui Esty è in fuga vuole una purità continua, secondo regole minime e onnicomprensive. L’impuro è fuori dallo spazio di un Dio che non è personale, ma comunitario e legale.

La religione è culto disumanizzante: non a caso il gesto di Esty, che rompe tradizioni e consuetudini, ha una conseguenza su tutti: un’altra vita è possibile, dove la donna sia veramente se stessa, con desideri e sogni, libertà e responsabilità. Perché, di fatto, un quotidiano così ampiamente normato lascia la persona priva di ogni responsabilità: tutto è già scritto, prescritto e deciso. In caso contrario, interviene il rabbino.

È dunque un Dio che sceglie pochi eletti e condanna il resto a perire, un Dio dis-umano, un Dio sorvegliante scrupoloso quello a cui Esty volta le spalle, in cerca di libertà e amore, rifiutando sensi di colpa continui.

Libertà e amore, appunto: può esserci rapporto con Dio senza questi due elementi fondamentali del vivere?

Da qui mi è nata spontanea la domanda, alla fine della serie: anche noi cristiani quante volte abbiamo presentato e difeso la nostra idea di un Dio accigliato regolatore del minino, pronto a punire, divinità a cui rendere culto, pena il ritiro della sua benedizione?

Quante volte abbiamo presentato la regola come un fine assoluto e non come un mezzo per l’umano?

Quante volte abbiamo fatto leva sul senso di colpa più che sulla libera risposta dell’uomo all’amore gratuito del Padre?

Quante volte ci siamo trovati nel dividere il mondo tra puri e impuri?

Quante volte abbiamo considerato la modernità come un campo abbandonato da Dio?

Quante volte ci siamo sentiti a posto per aver ‘espletato il culto’ e ‘obbedito alla norma’?

Quante volte la religione ha nascosto la fede, soffocando lo Spirito?

E infine: quante persone unorthodox hanno lasciato le nostre chiese perché vittime di un Dio padrone e non padre, di fratelli e sorelle giudici e legislatori?

Quante hanno abbandonato un Dio troppo lontano dal racconto fatto da Gesù di Nazareth con la sua parola e la sua vita?

Orthodox e unorthodox: vale la pena ricordare che fu l’autorità religiosa a condannare il Messia, perché unorthodox.

 

2 risposte a “Unorthodox e noi: quando la religione soffoca l’uomo (e Dio).”

  1. Gian Piero Del Bono ha detto:

    Strano eh, che sullo stessa identica comportamento vedoke donne del mondo islamico ( anche nell’ Islam la donna e’ trattata come fra gli ebrei ultraortodossi) , si stenda il velo dell’ omerta’ e la realta’ delke Donne nell’ Islam non venga invece ne’ rappresentata da telefilm o serie di Netflix ne’ contestata dalle femministe occidentali. Anzi venga lodato in Italia il velo islamico come “ segno di liberta’ come dice una recente convertita.
    Strano ma comprensibile: gli autori di Netflix vogliono far soldi con le loro serie tv non vogliono certo essere ammazzati dagli estremisti islamici! Siccome ne’ ebrei ultraortodossi ne’ cristiani usano ammazzare chi li mette in ridicolo ,e’ meglio non scherzare con l’ Islam , nota a tutti come religione di pace e di diritti civili.

  2. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Quante volte usiamo CCC&la miriade dei pronunciamenti Vatikanj come clava x avere ragione, x imporci alla diversitã altrui, x coprire la ns profonda ignoranza di Verità??
    Certi docs mi somigliano agli attuali TG..
    Quello ha detto che..
    Qs invece che…
    E quell’altro che…
    Fino ad averli nauseabondamente nominati tutti.
    Anche certi docs papali nn sfuggono, ma lo capisco: dice cose talmente nuove che deve pararsi dai contradditori citando ref dai precedenti docs…😍

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