L’inizio di un nuovo anno è (quasi) sempre l’occasione per ritrovare in sé la voglia di guardare in maniera diversa la propria vita. La dinamica di un lungo anno che finisce e di un anno nuovo che riparte, per certi versi suscita o risveglia anche solo un barlume di quella speranza, di quella fiducia, di quel calore umano che (spesso inesorabilmente) nel corso del tempo si affievolisce o si ammutolisce del tutto. In altre parole, tra il 31 dicembre e il 1° gennaio in ciascuno di noi passa, più o meno fugacemente, il pensiero: «Dai, forse quest’anno le cose andranno meglio». Perché, in fondo, penso che vivere significhi proprio andare continuamente alla ricerca di un qualcosa, di un pensiero, di un’esperienza, di una persona, capace di riaccendere questa scintilla di speranza nella vita stessa. Una scintilla che, purtroppo, raramente riesce a manifestare tutto il proprio potenziale, a divampare in un vero incendio, perché sempre siamo messi di fronte a situazioni che rischiano di spegnerla.
È questo eterno dissidio, il più delle volte tutto interno al nostro modo di fare esperienza della vita, che trovo ci venga restituito da un brano del 1994, eseguito da Andrea Bocelli e Gerardina Trovato e che, non a caso, si intitola Vivere. Si tratta di uno splendido dialogo a due voci, che mette in relazione modi diversi, e tuttavia complementari, di accostarsi alla vita, interrogarla e darvi un senso. Due anime, per così dire, che abitano costantemente in tutti e con cui sempre siamo chiamati a fare i conti.
La voce femminile, la prima a entrare in scena, spezza il silenzio raccontandoci di una vita insoddisfatta, priva di autenticità («vivo ricopiando») e di risposte. La domanda, infatti, «cosa sei?» posta allo specchio, è in fondo una domanda posta a noi stessi (riflessi) e, certo, lo specchio non può parlare, finché non siamo noi stessi a dire qualcosa. Noi, che tuttavia ci vediamo piccoli, destinati a rimanere per sempre creature e a non poter mai sperare di diventare qualcosa di più, un “dio” ad esempio (è chiaro il riferimento al primo desiderio dell’umanità biblica). È questo il dramma del vivere: sentirsi – come ebbe a dire una volta qualcuno – pro-gettati, scagliati nella vita senza il nostro consenso o la nostra volontà. «Vivere, anche se non l’ho chiesto io di vivere», come una canzone che se non è cantata, forse, è perché nessuno la voleva. Nessuno ha chiesto di vivere, e forse proprio per questo il meglio che posso fare è «fotocopiare» il vivere di qualcun altro («passato»), perché vivere «nessuno mai ce l’ha insegnato».
È a questo punto che imperiosa si erge la seconda voce, che si rifiuta di arrendersi alle considerazioni della prima e vuole invece gettare un’altra luce sull’esistenza, propria e in fin dei conti di tutti. «Se tu vedessi l’uomo… Se tu ascoltassi il mondo…». È questo un primo segreto: volgere lo sguardo intorno a noi, riconoscere che potremo anche essere creature, ma sempre all’interno di una più grande e coinvolgente creazione. Dobbiamo confrontarci, aprirci al vivere che incontriamo negli altri, quel vivere che spesso ci scorre accanto, davanti alla nostra indifferenza. È qui che potremo vedere le risorse che abbiamo, la ricchezza che noi stessi siamo e l’importanza (non l’ostacolo) di non essere Dio, perché (per fortuna) «di Dio c’è solo Dio».
Ecco, allora, che quelle stesse critiche sollevate in prima istanza, cambiano di segno. Nessuno, nemmeno quelli che vorremmo imitare o copiare, hanno mai imparato a vivere se non vivendo; in questo senso «non si può vivere senza passato», l’unico che forse ha il diritto di essere considerato un vero maestro di vita (historia magistra vitae). Siamo tutti alle prese con il medesimo compito, vivere, e solo riconoscendo questo legame universale potremo fare nostra quella che, a mio avviso, è un’autentica confessione di fede della vita in se stessa: «Vivere è bello anche se non l’hai chiesto mai», perché se una canzone nasce è perché c’è sempre qualcuno che desidera (o almeno ha desiderato) cantarla almeno una volta. Ciascuno di noi è la canzone che Qualcuno ha voluto.
È a questo punto che le voci si intrecciano, facendoci intuire come le due non siano parallele, incapaci di confronto, ma anzi come trama e ordito vadano a comporre l’unico ricamo dell’esistenza. È interessante notare come si determini il dialogo a questo punto. La prima voce, infatti, continua a progettare, a descrivere il proprio “stile” di vita, che punta alla grandezza («Qualcuno non mi basta»), a sogni da realizzare («cercando il grande amore»), a una sorta di immortalità («come se mai dovessimo morire»), insomma ricerca qualcosa che “da fuori” e “sempre più” possa dare senso e sapore alla vita. La seconda voce, invece, è innanzitutto un costante richiamo al fondamento, a cercare in quello che si fa il senso di ciò che si fa, con un martellante: «Perché, perché, perché…», a cui non si dà risposta.
È questo l’invito della vita: vivere, vivere «ora», vivere «questa sera». Perché? Perché forse, alla fine, mentre ci perdiamo a cercare “ciò che ci manca”, non ci accorgiamo che in realtà «questa vita tu non l’hai vissuta mai». Ed è qui, su questo «mai», che le due voci s’incontrano all’unisono, tornano d’accordo e si ritrovano. Perché la vita, con tutte le sue anime, è così: alla fine è qualcosa che ci interpella adesso, in maniera singolare, sempre storica e pratica. Ed è solo quando ci accorgiamo che siamo proprio noi ad essere in gioco, ad essere i protagonisti della nostra vita; quando vediamo che ogni nuovo inizio, ogni nuovo anno, è un appello a noi, in prima persona, a riprendere in mano la nostra vita, è allora che risuona in noi quell’unica voce, si riaccende quella scintilla, si risveglia quella speranza che non ci dice «sì» o «no», non ci dice «questo» o «quello», ma semplicemente ci dice: «Ho voglia di vivere».