Sono 23 giorni che cammino. Ho fatto 515 km. Da alcuni giorni il mio corpo manda segnali di stanchezza. Una tendinite alle spalle mi ha costretto a rivoluzionare il carico dello zaino. Ho spedito a Santiago circa 3 kg di cose, alle quali posso rinunciare. Così ho scoperto che si può viaggiare con appena 5 kg. Evviva l’essenzialità. Ma nonostante questo sono alla seconda scatola di ibuprofene. Non posso andare avanti così.
Oggi finalmente, dopo 9 interminabili giorni, il paramo leonese termina. L’orizzonte piatto e vuoto lascia il campo alle prime colline che dopo Leon chiudono verso ovest la via per la Galizia.
Da 4 giorni, al termine delle ore di cammino, i tendini anteriori della caviglia mi fanno male. Le sto provando tutte. Ho già fatto fuori un tubetto e mezzo di Voltadol. Loredana, di Trieste, gentile e dolce come sempre, mi ha regalato una seduta di Reiki. Efrem, polacca, ma sposata in spagna, ci ha provato con le sue capacità di pranoterapeuta. E Joan, medico scozzese, che a vederlo camminare sembra dover cadere da un momento all’altro, mi ha fatto alcune “punturine” di mesoterapia. Puntualmente ho ringrazio col cuore.
Ma ogni giorno che passa il dolore alle caviglie si fa sempre più consistente. Ho affrontato da 20 minuti la prima collina, dolce e invitante, dopo tanta pianura. All’improvviso una fitta secca e pungente dentro al tendine d’Achille sinistro, Poi un’altra, poi ancora un’altra. In cima alla collina fatico da appoggiare il piede a terra. In fondo alla discesa si accovaccia un borghetto di poche case, con un bar. Sono sorpreso e davvero preoccupato. Mi aspettavo che ha urlarmi il dolore sarebbero stati i tendini davanti e invece l’inatteso si presenta.
Arrivo con fatica la bar. Mi siedo fuori, slaccio gli scarponi e giù di Voltadol sul tendine. Aspetto e penso. Certo che questo cammino è davvero strano. Mi ero preparato per il sole e il caldo e sono 15 giorni che fa un freddo inusuale persino per gli abitanti di qui. Avevo preso mille precauzioni per le vesciche ai piedi, mentre i problemi sono cominciati dalle spalle. Ero preoccupato per la tenuta dei miei muscoli, mentre a mettermi in crisi sono i tendini. Per me che sono istintivamente portato a pianificare è una bella lezione.
Dopo un’oretta riprovo. Attacco la seconda “salitina” e dopo neanche 5 minuti il dolore al tendine d’Achille si ripresenta. Mi siedo sotto un albero. Respiro e tento di tranquillizzarmi. Fino in cima potrei anche arrivarci, ma la cartina mi dice che poi mi aspettano 4 giorni di salite e discese molto dure. E il pensiero di rischiare un tendine non mi molla. Dopo tre anni che ci penso e che mi organizzo. Dopo tre settimane già passate e appena 260 km rimasti. Dopo quasi un migliaio di euro spesi. Dopo giorni di pensieri per trovare una soluzione, all’improvviso sento che sono arrivato. Non penso di potercela fare ad andare oltre, questo é il mio limite.
Torno al bar e chiamo un taxi. E il senso di frustrazione mi invade. Rabbia e delusione insieme. Non potrò assaporare il gusto dell’ultimo giorno, dell’arrivo a piedi. E tutta questa fatica e questo tempo sembreranno perduti. Ma anche la consapevolezza che la scelta è quella giusta. La ragione può non avere corpo a volte, ma il corpo ha sempre ragione. E mentre sono sul treno verso Santiago, qualche ora più in là e circa 30 euro in meno, penso al senso che ha questa esperienza per me. Ho sempre detto che si capisce chi si è quando si tocca il proprio limite e si accetta di non trapassarlo. Ma quando succede è dura accettare che il limite sia proprio li.
Poi una metafora che mi aveva regalato una mia amica, da una vita sulla sedia a rotelle, mi soccorre dalla mia memoria. E’ come quando in una stanza in cui stiamo in piedi a camminare si spegne la luce all’improvviso. D’istinto andiamo a cercare la parete e ci appoggiamo con le mani. Ci rassicura. Ma sappiamo bene che è anche il muro oltre il quale non possiamo andare. Ecco, per un certo verso mi sento liberato dal peso di continuare a cercare dove sta il mio limite, ma per un altro verso una parte di me vorrebbe che quel limite fosse stato più avanti.
E mi chiedo se in fondo questa non sia davvero una metafora del rapporto con Dio. Tessuti di carne e sangue portiamo dentro la nostalgia di essere Dio. E se la realtà non si incarica ogni tanto di ricordarcelo finiamo per scambiare il nostro desiderio con Dio stesso. Se fossi arrivato a Santiago da solo, con le mie forze, forse mi sarei inorgoglito di più di quanto già di mio non faccia. In fondo al cuore è dolce dirsi: sono solo un uomo. E mi torna in mente la frase su una maglietta di un mio studente, che qualche mese fa aveva indossato un giorno, provocatoriamente: “Dio esiste, ma non sei tu, rilassati!”