Il 24 giugno scorso l’Osservatore Romano ospitava un denso e interessante approfondimento su ‘letteratura e sacro’: tema antico, che torna abbastanza regolarmente, infatti sappiamo che è una «Vexata quaestio se abbia senso o no parlare di “letteratura cristiana» (Andrea Monda). Il dibattito è nato da un articolo dello scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada, La letteratura moderna sospesa fra Dio e il nulla, pubblicato su Vita&pensiero e ripreso in parte dal quotidiano della Santa Sede. La tesi dell’autore spagnolo è abbastanza netta: nel nostro tempo postmoderno «la letteratura degna di questo nome deve escludere l’inquietudine religiosa», per cui oggi non si darebbe nessuna vera opera letteraria che affronti, anche indirettamente, la tematica ‘Dio’. Va da sé che poi tutto ciò porterebbe alla marginalizzazione di quanti, al contrario, vorrebbero trattare il tema del ‘mistero’: «ogni scrittore che si rispetti o che desideri godere di stima all’interno della conventicola culturale deve fare pubblica professione di ateismo; o, meglio ancora (scripta manent), darne prova nella sua opera, dove le inquietudini religiose devono brillare per la loro assenza» (si noti, en passant, la sensazione che tali frasi possono suscitare, e che cioè de Prada abbia più un risentimento personale per esclusioni patite che motivazioni di ordine poetico ed estetico). Rispondono alle parole dello scrittore spagnolo, nello stesso numero dell’Osservatore, prima Lorenzo Fazzini, che elenca autori e autrici credenti e che della loro fede fanno pubblica menzione, anche sostenendo, con garbo, ironia e una punta di sana provocazione: «l’indebolimento culturale dell’esperienza cristiana non ha più fornito l’humus per rileggere e innervare cristianamente l’arte di “maneggiare i sogni delle persone”, come Piero Marietti definiva l’impresa di fare romanzi». Insomma, mancano i Bernanos e i Merton, ma non è sempre ‘colpa degli altri’, sembra dire Fazzini (e come dargli torto?).
Stesso elenco di autori, ma di matrice anglosassone, fa poi Timothy Radcliffe, che con la consueta arguzia ricorda quanto, invece, in lingua inglese il tema religioso non sia per nulla assente (ma forse qui dovremmo distinguere tra Stati Uniti, dove la religione ha un peso notevole nel dibattito pubblico, e Europa), annotando: «Esiste una faglia che attraversa la nostra cultura, ma non separa credenti e atei, bensì quanti soccombono a varie forme di fondamentalismo — nazionalistico, economico, scientifico o, cosa più agghiacciante, religioso — e quanti, religiosi o no, sono aperti al trascendente». Considerazione pertinente, che porta con sé uno dei noccioli della questione, e cioè non tanto se manca la ‘religione’ nella letteratura contemporanea, ma quale tipo di religiosità sia assente (o presente).
Dunque Monda, Fazzini e Radcliffe sono ben più ottimisti di de Prada. In posizione mediana è, invece, Ferruccio Parazzoli, che in un dialogo con Silvia Guidi si dimostra più pessimista sul panorama attuale, tutto schiacciato a suo avviso sulla cronaca, anche se lo scrittore sembra infine avere qualche varco di speranza: «Non censurare il male, non distogliere lo sguardo dallo sconcertante mistero della “sventura”— per usare un termine caro a Simone Weil — che si abbatte su un’esistenza umana, è forse il segreto di un riscatto possibile, di un rinascimento a portata di mano, nell’arte e nella letteratura». Quello che dice Parazzoli è un piccolo sunto di quanto ha sostenuto ne Apologia del rischio (Vita e pensiero, 2018), in cui lo scrittore sosteneva la necessità di osare la direzione verticale (vetta o «abisso») contro una «letteratura orizzontale» che, al contrario, evita il rischio: «È il rischio ciò che conta, non il successo o il fallimento» (in un’intervista che nel 2019 mi aveva concesso per la rivista svizzera Cenobio mi aveva parlato della «pappa del nulla» come caratteristica di tanta letteratura ‘orizzontale’ di oggi).
Insomma, un dibattito interessante, su un argomento che, personalmente, mi sta a cuore e sta a cuore a quanti cercano di conciliare «i moderni senza cristianesimo e i cristiani senza modernità» (Jean Guitton), nello sforzo di edificare cultura, come su Vinonuovo si cerca di fare (nella sua declinazione letteraria, ad esempio, mi piace ricordare che tra il vecchio sito e l’attuale ho accostato per quasi cento domeniche Vangelo e pagine di letteratura, dimostrandone la feconda risonanza reciproca).
Va da sé che molto della visione del rapporto tra letteratura e religione dipende dal modo in cui si guarda anche al contesto che ci sta attorno, alla fine del regime di cristianità che è ormai evidente in Europa, e che anche l’universo letterario registra. Ma bisogna anche considerare che la modernità non è diversa dalla postmodernità in certe declinazioni ‘atee’: citando Bernanos o Peguy o Claudel o Mauriac come non ricordare che la Francia in cui essi vissero e scrissero era quella successiva al 1905? Dunque, se oggi siamo in regime di ‘pensiero debole’ (Vattimo), di nichilismo che non lascia immune la parola scritta, di ‘campo simbolico’ (Bourdieu) che privilegia l’immagine e il consumo immediato, di ‘produzione culturale’ che molto sollecita l’intrattenimento, godendone… insomma, se tutto ciò è vero – tanto più nella ‘società accelerata’ (Rosa) che non lascia spazio alla fatica del sapere –, ebbene è inevitabile che con maggiore fatica ci si cimenti in esperienze significative del bello, che domandino un altro punto di vista, un altro sforzo di comprensione, magari un altro codice estetico. Tuttavia, a ben guardare, esiste un’insopprimibile ricerca e trasposizione del ‘sacro’ (termine che preferisco a quello di religione) che può investire l’intera arte, o almeno alcune manifestazioni magari non maggioritarie di essa, sia nella narrativa, nella poesia, nel cinema, nel teatro, nelle arti figurative: qui allora rimane valida l’ottima l’intuizione del grande Peter Brook, recentemente scomparso: «un teatro sacro non si limita a presentare l’invisibile, crea anche le condizioni per renderne possibile la percezione». È una definizione che potremmo benissimo applicare anche alla letteratura, portando con sé un implicito ammonimento, per cui chi ha fede e fa arte dovrebbe sempre vigilare su una questione decisiva, tanto più nel nostro tempo, ossia il rischio dell’apologetica stantia, della ‘catechesi mascherata’, del ‘ribadire’ ciò che si sa senza assumere su di sé il peso del vivere, la pena del mondo, e insieme la gioia dell’esistenza; un’arte ‘sacra’ è tale se ha il coraggio di farsi penetrare e restituire la vita intera, le sue contraddizioni, i suoi dolori, il suo inevitabile fardello, le sue speranza, le sue domande prima che fornire risposte (soprattutto se ‘preconfezionate’).
Si innesta così anche un discorso su cosa sia letteratura, su cosa sia ‘paraletteratura’ (Spinazzola) o letteratura di consumo; perché, per esserci ‘letteratura di ispirazione sacra’, ci deve prima essere vera letteratura. Ad esempio, due tra i maggiori scrittori francesi contemporanei, Emmanuel Carrère e Michel Houellebecq, pur nelle differenti poetiche, hanno preso di petto il tema del sacro e del religioso, il primo nel Il regno, con accento personal-biografico, come è nel suo stile, il secondo in chiave più storica (futuribile) in Sottomissione. Si tratta di due testi che rappresentano ‘letteratura’ e che vanno a incidere là dove oggi l’umanità contemporanea avverte il senso del sacro e l’intersezione tra io e forma storica della religione, dando conto del mistero e della sua percezione, per stare a Brook. E che dire, sempre guardando al panorama transalpino, di Bakhita (2017), il romanzo di Véronique Olmi che ha vinto più premi?
Allora, verrebbe da dire che davvero, in un’epoca nella quale ciò che è arte fatica a emergere, in un contesto di non più scontata cristianità, le opere di ispirazione sacra sono forse poche. Ma dovremmo anche domandarci, almeno stando alla nostra geografia culturale italiana, se la paura del ‘rischio’ non abbia solo frenato l’ambito laico, ma anche quello cristiano; ossia, dovremmo chiederci se in ambito cristiano la preferenza non sia stata accordata alla strada rassicurante dell’apologetica e della conferma, invece di dare spazio, tempo, risorse (e coraggio) a quegli artisti o opere che, come sa fare la vera letteratura, ad esempio, mettano in discussione, scavino, approfondiscano, spezzino consuetudini, aprano al mistero in modo nuovo… (salvo poi, però, andare alla ricerca un po’ strumentale del minimo dettaglio di ‘sacro’ nell’autore affermato ateo, nell’autrice ‘simpatizzante’ agnostica). Forse Mario Luzi, David Maria Turoldo, Cristina Campo faticano ad avere eredi perché non si raggiungono quelle altezze; ma forse, verrà da dire, negli ultimi decenni, di fronte al secolarismo, il mondo cristiano ha preferito ritirarsi, ha preferito piccole navigazioni, piccoli rischi, piccoli mezzi… troppo sovente relegando la questione culturale ai margini. In questo, purtroppo, il cristiano è venuto meno alla vocazione di essere lievito e sale della terra, anche nel vasto, secolarizzato e postmoderno mondo della cultura.
La letteratura ‘sacra’ non sta tanto bene, e magari ha ragione de Prada; ma ugualmente è probabile che non stia tanto bene nemmeno la vita di fede capace di generare parola, arte, storie: è quell’aspetto ‘performativo’ della fede (Ratzinger), capace di elaborare pensiero, che non può escludere la creatività e la speranza di abitare l’oggi in tutte le sue forme. Anche in letteratura. Anche nel conflitto.
Ma bene che almeno se ne parli.
Carissimo Sergio, sento e riduco la sua risposta a….
OK. Ma dobbiamo fare qualcosa per qs deserto.
OK.
Al solito sono pro-vocatorio.
Ci sono molte Persone che stanno piantando fiori nel deserto.
Non sono letterati.
E manco artisti.
Sono, in fatto di Kultura, jgnoranti.
E spesso nn sono manco cattolici.
Ce ne stiamo accorgendo?
Mi pare che tu sei di Palermo.. quanto sarebbe lungo un tuo elenco di costoro?
Imo lunghissimo.
Ciao e grazie x il tuo impegno.
Provo.
1) parto da Bonhoffer:
qs mondo non ha/sente/mostra il BISOGNO di Dio.
Vive lo stesso SENZA Dio.
2) Ma anche senza CULTURA, quella cosa strana piena di riferimenti e citazioni INTERNE, cioè ad uso e consumo del solo circolo di attori/scrittori/artisti..
Quanti davvero navigano agevolmente nell’articolo di Sergio??
P.f. riconosciamo che ciò consegue direttamente dal diaframma economico/sociale tra ricchi e poveri.
Basterebbe fare un panel analitico dei soli ‘acculturati’. Ce lo trasciniamo da secoli.
Se vi illudete che la letteratura possa generare il Sacro e la Fede.. ciao!
Come possono fiorire fiori dal deserto?
Comprensibile la ritirata dei credenti.
Caro Pietro,
Bonhoeffer, che mi cita, ci dimostra proprio quanto un lavoro culturale sia necessario in ottica cristiana, mettendo al centro della vita, come dice il teologo, Dio. Non ai margini.
Secondo: la letteratura come ogni esperienza estetica e conoscitiva, dunque di vita, può comporre condizioni per cui si possa generare un contatto con il sacro.
Terzo: se molti, a suo avviso, seguono l’intrattenimento, forse che desisteremo dal provare a costruire altro?