Per entrare bisogna scendere tre gradini. Di colpo la luce quasi scompare e per i primi secondi, appena dentro, non ci vedo nulla. Poi le pupille si dilatano e le cose mi arrivano dritte dritte. L’interno è un gotico dolce, leggero, di pietra scura, la luce è poca, ma chiara. Non è grande e riesce a dare il senso dell’accoglienza. Mi siedo nell’ultimo banco e ascolto il silenzio. Siamo solo quattro persone in chiesa. Ho ancora il respiro un po’ teso. Oggi ho fatto solo cinque ore di cammino, ieri solo due. Sul piano fisico ho scelto un “approccio” dolce al “Cammino”. Sul piano spirituale vorrei altrettanto. L’albergue è ancora chiuso e ho una oretta di tempo.
Roncisvalle è un pugno di case, una trentina di abitanti, cresciute attorno alla “Real Colegiata de s. Maria”, quasi sul crinale dei Pirenei, pochi metri dentro la Spagna. Più di dodici secoli di storia sulle spalle, ma li porta bene. E nel silenzio di quella chiesa sento che appartengo, come pellegrino, ad una infinito popolo di viandanti che prima di me hanno solcati queste pietre, verso Santiago. Ma perché? Perché lo hanno fatto e perché continuiamo a farlo? Ed io perché ho preso un aereo e due treni per arrivare fino qui, all’inizio di una via che mi mette davanti 750 km e 30 giorni di cammino? Onestamente non lo so.
Cioè lo so, ma è un insieme di tanti perché, nessuno dei quali risponde mai abbastanza alla domanda. Di sicuro sono qui perché amo la sensazione di essere “viandante” della vita, ma a cinquant’anni sarebbe quasi ora di mettere un po’ di radici. Sono qui perché avevo bisogno di staccare, dopo un anno di lavoro intenso e a tratti pesante, ma potevo farlo tranquillamente anche a Punta Marina, stravaccato su un ombrellone a cuocermi al sole. Sono qui certo anche per starmene un po’ da solo, perché il mio lavoro e la mia vita mi chiedono molta “relazione” con gli altri, anche se lo so che non sono nato per fare il monaco. E poi sono qui anche per trovare tempo e spazio per tornare a sentire parti di me, della mia anima e del mio corpo, che di solito non frequento spesso.
Ma dentro a questa chiesa, questi piccoli pezzi di risposta da soli non riuscirebbero a sostenere la fatica e la costanza necessarie per arrivare in fondo. Allora mi alzo dal banco e risalgo la chiesa sulla navata destra. E quasi all’altezza del transetto si apre una piccola cappella. Al centro un piccolo leggio porta una grande bibbia in spagnolo. E’ aperta su 2Re 8.
Non credo molto alla lettura casuale della bibbia. Ma al versetto 1 trovo uno di quei passi poco famosi, che non vengono mai citati. Poco logori dall’uso e dall’abuso e forse per questo ancora carichi di profezia e autorità. Che stranamente mi coglie quasi di sorpresa in mezzo ai miei pensieri e sembra costruito apposta per me e per quel momento. “Alzati e vattene con la tua famiglia; dimora fuori del tuo paese, dovunque troverai da star bene, perché il Signore ha chiamato la carestia“.
E’ come quando in una stanza buia si accende d’improvviso una luce intensa. E lì per lì ho sentito solo una dolce fitta la cuore. E due parole sono venute in primo piano. La prima è quel “il Signore ha chiamato la carestia”. L’ha chiamata sul mio “paese”, e questo sento che può avere tanti livelli di lettura: economico, politico, valoriale, educativo. Ma a me fa figura quello spirituale, quella fame di senso che spesso vedo nei miei ragazzi a scuola e nelle persone che incontro e che ora, qui, sento che è anche mia.
Ma allora la “crisi”, il momento di spaesamento e a volte di paura che ci prende, se guardiamo la realtà di oggi, non è fuori dalle mani di Dio, perché Lui l’ha chiamata. Allora ci è chiesto, e mi è chiesto, di accettare la sfida di mettermi in cammino per cambiare il mio sguardo sulla realtà, non per cambiare la realtà. Non importa dove arrivo, importa come ci arrivo e come ci vivo dentro mentre cammino.
E qui trovo la seconda parola che mi si impone. Quel “dovunque troverai da stare bene”, che mi lascia libertà di scelta sui modi e sulle forme del mio starmene “fuori del mio paese”, e soprattutto che fa dello stare bene il metro di valutazione della verità del mio “cammino”. Strano e inusuale per la Bibbia, che di solito è su registri più direttivi e più legati alla verità oggettiva che non al vissuto soggettivo.
E se fosse proprio questo il cambiamento di mentalità che mi viene chiesto? Se la ascesi e il sacrificio di questi giorni che verranno mi potessero regalare di tornare a percepire che il mio benessere complessivo, spirito anima e corpo, è una guida interna chiara e sana di dove ora Dio mi chiama? Se mi fosse concesso di tornare a sentire che la preghiera non è un rito, una necessità o peggio un dovere, ma è un “passatempo”, nel senso buono di azione libera e rigenerante negli interstizi della vita?
Esco dalla chiesa e ritorno sulla strada. E mentre guardo i campi di grano appena tagliati oltre l’asfalto mi viene in mente una metafora di uno dei miei “maestri”, D. Winnicott: l’uomo ogni tanto ha bisogno di “stare a maggese”.