Paura di respirare

Tra guerre, eccidi, violenze e omicidi, l'aria viene meno e si rischia di soffocare. Quale via d'uscita da questa "bolla" angosciante?
30 Settembre 2024

«Il tuo cervello è nel panico … non sei abituata a respirare sott’acqua …
ti sta dicendo che sei sommersa … che questo è tutto e non c’è via d’uscita.
Invece, tu continua a respirare, … continua a respirare!», Sean Penn, in Daddio (2023)

 

Mi sono imbattuto in un film come non ne vedevo da tempo. Due soli attori: un uomo e una donna dentro un taxi che chiacchierano per una intera notte. Si conoscono, si confidano, si aiutano, si benedicono, si congedano. La protagonista femminile, appena atterrata all’aeroporto JFK di New York dopo una visita alla sorella, prende un taxi guidato da un uomo, Clark, con il quale inizia una lunga conversazione. Daddio, questo è il titolo della pellicola, è tutto nel loro conversare: della vita, degli amori, dei propri successi e fallimenti, di un aborto che fa ancora piangere e di tanti altri sogni che, come quel bambino, non sono mai nati. Si viene a sapere che la donna ha una relazione con un uomo sposato e che Clark cerca di dissuaderla dal continuare. Si tratta infatti di una relazione dove l’erotismo prevale sull’amore e che pertanto non potrà reggere agli umori e all’usura del tempo. Le battute finali della lunga conversazione sono straordinarie perché descrivono lo stato d’animo della donna: il panico dentro una vita che la sommerge ed è per lei come «respirare sott’acqua». Ne sente il bisogno disperato, ma allo stesso tempo ha «paura di respirare» perché respirare – quando si è sommersi – significa morire.

Non poteva esserci immagine più efficace per descrivere questo tempo storico, in Italia come in Cambogia. Respirare si deve, ma respirare quest’aria significa morire. Mette panico perché è spesso aria di guerra e noi dentro quest’aria non riusciamo a sentirci come “pesci nell’acqua”! Nondimeno, il dialogo tra i protagonisti si conclude con una potente ingiunzione: «tu continua a respirare, … tu, continua a respirare!» quasi vi fosse ancora una speranza.

Talvolta le nostre vite sono così, sommerse e senza via d’uscita. Sommerse di messaggi e di immagini, di pareri e di ricette, di emozioni e di reazioni, di chiacchiere e di prediche che a forza di respirare (solo) questo e tutto questo, si muore! Si muore di noia o di cattiveria, di passione o di dolore, di paura o di rancore, si muore. La chiamano infosfera quando a parlare è un filosofo oppure infocrazia [1] quando a farne uso è un politico o un governo o un qualsiasi sistema di potere che fabbrica verità, diffonde notizie, crea panico sapendo che per la maggior parte di noi ormai essere liberi non significa più pensare e poi agire, quanto piuttosto cliccare e poi postare. Ora, dentro questi orizzonti non possiamo essere ingenui e non riconoscere che la disinvoltura con la quale si uccide lungo la striscia di Gaza, e si tace, è la stessa con la quale a Paderno Dugnano si stermina una famiglia anche se è la propria. E la disinvoltura con la quale si umilia la vita su tutti i fronti fin dal suo concepimento è la stessa che ha indotto una giovane donna della provincia di Parma ad occultare i propri figli, partoriti e poi subito uccisi. O la disinvoltura con la quale si promuove l’azzardo e qualsiasi altra banalità commerciale è la stessa con la quale si disfano amori come fossero usa e getta. Quelle migliaia di notizie e immagini diffuse, quelle migliaia di armi comprate o vendute, quel banale qualunquismo a buon mercato prima o poi arrivano – sono già arrivati! – anche nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle vie dei nostri paesi: stesse scene, stesse armi, stesse violenze, stesse morti.

Daddio ci dice invece, con l’inutilità dell’arte, che respirare è conversare in profondità. Che una notte a chiacchierare dentro un taxi può sprigionare un amore che non chiede sesso e una luce che dissolve anche la tenebra più densa. Quella tenebra che è non-sguardo, non-parola, non-volto [2] dentro un mutismo che sa pensare solo la morte nell’impronunciabile addensarsi del niente mentre si è ancora “vivi”. So di rischiare la vita dicendo che il venir meno di suore con i loro asili e di preti con le loro prediche, di cortili con i loro pulcini e di campanili con i loro rintocchi, di sedi di partito con i loro dibattiti e di circoli con le loro bocce, sta cambiando l’Italia. E so anche che a questo punto qualcuno potrebbe scendere in campo con il patriarcato come l’origine di tutti i mali: ben venga, discutiamone! So però che a otto anni ero in cantiere con mio padre e questo mi ha aiutato. Se succedesse oggi gli arriverebbe una pur legittima denuncia per sfruttamento di minori! Eppure quelle giornate di lavoro hanno introdotto nel mio vocabolario la parola “fatica” che, da sola, se la si sa portare, fa miracoli su tutti i fronti. E ha introdotto nei miei sogni la Cambogia che, da sola, se la si sa amare, sa restituire a tutti i veicoli, anche i più sgangherati, una seconda chance. W l’usato!

«La storia mostra che quando, per qualche ragione, vengono meno i principi che assicurano la propria identità, l’invenzione di un nemico è il dispositivo che permette – anche se in maniera precaria e in ultima analisi rovinosa – di farvi fronte» [3]. Questo vale in casa con i propri cari, in ufficio con i propri colleghi, su tutti i fronti di questo mondo fin dai tempi di Caino e Abele. Perché il senso, quando lo si è perso e l’adrenalina, quando si è vuoti, tornano solo se riattivati. Per questo, ormai, «l’invenzione di un nemico contro il quale combattere con ogni mezzo è […] il solo modo di colmare l’angoscia crescente di fronte a tutto ciò in cui non si crede più». Ci si deve inventare un nemico perfino in casa quando si è estranei gli uni gli altri, come ovunque quando non si hanno più risorse interiori – umane e divine – per credere, sperare, amare. Dopo di che: stesse scene, stesse armi, stesse violenze, stesse morti.

Provare invece a credere che respirare è conversare e che il respiro del corpo e dell’anima si riacciuffa in una notte, creando amici non nemici, può farci uscire dalla tenebra. Allora sì, «tu continua a respirare!».

 

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[1] Byung-chul Han, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Torino 2023.
[2] Cf., S. Petrosino, «La tenebra ovvero l’apocalisse del male», in Vita e Pensiero, 4/2024, 99-103, qui 102.
[3] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-u2019invenzione-del-nemico

Una risposta a “Paura di respirare”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Se si vuole uscire da questa bolla di male, come apocalisse, si può entrando in una chiesa, ormai quasi tempio vuoto di fedeli, guardare quel Dio e parlargli, Lui non solo sa rispondere, ma infonde il coraggio di rompere questo diaframma di male che si frappone tra l’uomo intrappolato che però anela a trovare aiuto in una mano tesa capace di ridare non solo conforto ma “vita” “Tu dell’uomo sei l’onor”, Tu dei forti la dolcezza, Tu dei deboli il vigor, Tu salute dei viventi, Tu speranza di chi muor, Ti conosca il mondo è t’ami, tu la gioia d’ogni cuor; ave, o Dio nascosto e grande, tu dei secoli il Signor. T’adoriam, Ostia divina, t’adoriam Ostia d’amor”. Preghiera calda prorompente dal cuore di una Chiesa fatta da generazioni di voci che in questo Dio altissimo ma vicinissimo ha dato la vita perché anche ogni uomo l’avesse e per sempre.

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