Non compiacerci della caduta, ma invocare la «pietà / delle stelle

In questa domenica per molti senza Eucarestia, il Vangelo ci educa alla fortezza e all’umiltà, come cantava anche la poetessa Antonia Pozzi nell’aprile del 1933.
1 Marzo 2020

È strano, in questa prima domenica di Quaresima, accostare la Parola a qualche pagina di parola umana. È strano perché, in molte chiese del nostro paese, il Vangelo oggi non risuonerà tra le vite di uomini e donne presenti in preghiera, comunità raccolta attorno all’annuncio e al pane spezzato. È strano perché, dunque, le parole del Vangelo scorreranno solamente silenziose nei cuori: magari saranno oggetto di una lettura attenta o distratta, forse saranno occasione di una riflessione breve o intensa.
È un modo nuovo di celebrare la domenica, per molti forse abituati a dare per scontato la celebrazione. Ma, per certi versi, questo modo insolito ci avvicina a tanti fratelli e sorelle cristiani che non hanno il ritmo regolare dell’Eucarestia domenicale, o ancora di più, ai tanti che nelle nostre città non partecipano alla vita di fede.
Oggi sperimentiamo pertanto, in qualche modo, quello che accade spesso nel nostro tempo a molti volti che incrociamo nelle nostre giornate.
E così iniziamo il nostro cammino delle domeniche quaresimali consapevoli di questa inattesa novità delle chiese senza celebrazione: ci servirà forse a renderci più consapevoli dei doni che abbiamo gratuitamente accanto alla porta di casa?

Perchè il Vangelo di oggi, che apre il sentiero verso la Pasqua, ci obbliga a chiederci che cosa davvero ha valore e peso nelle nostre vite: i beni materiali? Il potere? Il successo? E ci costringe anche a volgere lo sguardo alle nostre relazioni: con gli altri, con Dio, con noi stessi: usiamo gli altri? Usiamo Dio? Usiamo la sua Parola per i nostri egoismi? Siamo liberi o siamo schiavi di idoli fatti a nostra immagine?

Sono le tentazioni che il Messia subisce nell’incipit della sua storia pubblica. Ma sono, soprattutto, tentazioni che noi sentiamo nelle nostre storie. Lusinghe di dominio e possesso, trappole di egoismo che, lo sappiamo, molte volte ci fanno cadere, perché alla tentazione è difficile resistere e non sempre sappiamo coltivare la virtù della fortezza, che il Vangelo ci mostra così radicata in Gesù.

Siamo uomini e spesso cadiamo; ma, forse, non è tanto questo il problema. O meglio, non è solo questo. Il problema è quanto siamo disposti a riconoscere la caduta, quanto abbiamo coscienza del male, quanto sappiamo ancora chiamare ‘peccato’ ciò che è peccato e, di conseguenza, non solo sforzarci di evitarlo, non solo chiedere alla Spirito la fortezza, ma anche coltivare l’umiltà che ci permette di rialzarci, di domandare perdono, di non arrenderci alla caduta.
Perché una cosa è la fragilità, la debolezza che tutti ci accumuna, un’altra cosa è l’orgoglio che ci porta a compiacerci della caduta, che ci induce a compiacerci della tentazione assecondata.

Sono riflessioni che trovo anche in un bel testo di Antonia Pozzi (1912-1938), poetessa milanese morta suicida a soli 26 anni, autrice di liriche di grande intensità e pudore, riscoperta soprattutto negli ultimi anni.
Scrive Antonia Pozzi in Così sia, ora nella raccolta Parole:

Poi che anch’io sono caduta
Signore
dinnanzi a una soglia –

come il pellegrino
che ha finito il suo pane, la sua acqua, i suoi
sandali
e gli occhi gli si oscurano
e il respiro gli strugge
l’estrema vita
e la strada lo vuole
lì disteso
lì morto
prima che abbia toccato
la pietra del Sepolcro –

poi che anch’io sono caduta
Signore
e sto qui infitta
sulla mia strada
come sulla croce

oh, concedimi Tu
questa sera
dal fondo della Tua
immensità notturna –
come al cadavere del pellegrino –
la pietà
delle stelle.

Napoli, 9 aprile 1933

Ho fatto una breve ricerca: il 9 aprile del 1933 era la Domenica delle Palme (e da poco più di un mese Hitler aveva vinto le elezioni tedesche: si infittiva così il buio dell’Europa).
Con questi versi intonati a profonda umiltà, Antonia Pozzi schiudeva la sua Settimana Santa. Versi veri, realistici: siamo uomini che cadiamo, siamo uomini che non riescono, talvolta, a toccare «la pietra del Sepolcro». Possiamo mancare lungo la via, possiamo chinarci e fermarci sulla soglia. Anche la storia collettiva può subire inciampi e involuzioni, conoscere la tenebra e l’abisso.
Però quel cadere, almeno a livello personale, se vissuto nell’umiltà, potrà anche essere occasione di rinnovato slancio o di maturazione, quasi trasformando il male in occasione di bene, per grazia: «e sto qui infitta / sulla mia strada / come sulla croce».
Saremo allora in grado di vincere l’orgoglio, e chiedere, come Antonia Pozzi, misericordia e pietas: «oh, concedimi Tu / questa sera / dal fondo della Tua /immensità notturna – / come al cadavere del pellegrino – /la pietà /delle stelle».

Chiedere pietà è il primo passo per rialzarci. Possiamo essere «come il pellegrino / che ha finito il suo pane, la sua acqua, i suoi /sandali». Ma possiamo sempre alzare lo sguardo e invocare «la pietà / delle stelle», l’unica che ci salva, e l’unica che ci permetterà di giungere alla pietra del Sepolcro, al termine della Quaresima e al termine dei nostri giorni.

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