Prendere la parola su certi argomenti risulta sempre difficile: non solo per la gravità e la delicatezza dell’argomento in sé, ma anche per la storia che può aver accompagnato la discussione attorno ad esso, spesso facendone uno strumento ideologico, ben lungi dalla ricerca della verità e di un autentico senso umano del vivere. È certo questo il caso dell’aborto o, per allargare l’orizzonte, di tutte quelle tematiche più o meno direttamente intercettate dalla commemorazione della giornata per la vita, quest’anno prevista per il prossimo 5 febbraio.
Per non cadere, tuttavia, nella stessa trappola e rischiare di ridurre ogni discorso, che volesse serio e argomentato, a una serie di affermazioni apodittiche, di luoghi comuni o di sterili (l’aggettivo cade a proposito) articoletti che, inevitabilmente, dicono troppo poco e troppo male, e per non ridurre la stessa giornata all’ennesima occasione di scontro ideologico fine a se stesso, vorremmo prendere parte a questa celebrazione per la vita nascente lasciando risuonare, per l’appunto, semplicemente un inno alla vita o, per meglio dire, a colui o colei che nasce, per celebrare il venire al mondo come evento di gioia, senza avere necessariamente avversari o “controparti”.
Vogliamo dare, allora, ancora una volta la parola a chi è riuscito (a parer nostro, almeno) a esprimere con finezza, delicatezza e profondità la singolarità e l’autenticità di ogni essere umano che nasce. Perché in fin dei conti – questo ci sentiamo in dovere di dirlo – la questione non riguarda soltanto chi “mette” al mondo, ma anche chi “è messo” al mondo, e la relazione unica e singolarissima che intercorre tra i due (fisicamente parlando; in senso più lato potremmo meglio parlare dei “tre”).
Ebbene è proprio questa relazione che emerge con potenza e solennità in un brano scritto proprio pensando a una figlia. Ci riferiamo alla canzone A modo tuo, uscita nell’album L’anima vola di Elisa nel 2013 ma composta da Luciano Ligabue (che in seguito l’ha eseguita nel 2015) per la figlia Linda.
È interessante, in prima battuta, vedere come nel testo emerga con chiarezza una relazione, un rapporto che segna tanto il destinatario cui si rivolge il brano, quanto il mittente. È proprio quest’ultimo, infatti, che si sente chiamato in causa dal primo fin dall’inizio: «Sarà difficile diventar grande prima che lo diventi anche tu». La nascita di un figlio interpella il genitore a un cambiamento, a una rivoluzione, a mettere via i giochi e provare a crescere. Evangelicamente potremmo parlare di una conversione, sottolineando non tanto la crescita (biologica) del piccolo quanto quella umana (affettiva) dell’adulto. Detto ancora in altri termini, non si potrebbe sentir qui risuonare il noto «rinascere dall’alto» che ci viene offerto dal vangelo giovanneo? La nascita è sempre un invito a una ri-nascita.
Questa relazione, tuttavia, non è solo a due (o a tre, se si preferisce) ma include, purtroppo e per fortuna, un contesto, uno spazio, «un mondo, che è quel che è». Certo, un mondo che è ben lungi dall’essere il migliore dei mondi possibili. Eppure, è solo qui che noi possiamo mettere, appunto, «al mondo», un mondo che a suo modo attirerà sempre di più ogni nuova creatura che vede la luce, la porterà sempre più lontana dalla propria origine e, chissà, forse proprio con questa nuova creatura potrà diventare un mondo migliore. È questa infatti la chiave del brano così come del senso del nascere: ognuno vive «a modo suo», cammina, cade e si rialza, agisce, fallisce e si riprende, ciascuno «a modo suo». La nostra dizione, tuttavia, è imprecisa. Il brano, più correttamente, afferma: «a modo tuo». Infatti: è il “tu” la persona più adeguata per tradurre la singolarità di ciascuno, il sentirsi chiamati in causa da un altro che non è un “si” impersonale (che potremmo rendere come “a proprio modo”) ma un soggetto concreto, ben definito, un “tu” con un suo proprio modo.
Riconoscere il “tu” di chi viene al mondo significa accogliere il destino, meglio, il compito che ciascuno ha per sé. Far nascere, dare la vita (o, come direbbe Derrida, donare la morte) significa guardare «da dietro», mettersi alle spalle di qualcuno che sta davanti a noi e si allontana, «a cercar da sola quella che sarai». Il proprio essere, il proprio esistere. Niente di meno ci è richiesto e niente di meno ci è promesso da chi ci mette al mondo. Ma perché «da sola»? Non certo perché siamo isolati o abbandonati; piuttosto, perché solo noi possiamo assumerci questo compito, solo noi possiamo scoprire «chi siamo».
È evidente – ogni strofa inizia col ribadirlo – come tutto questo sia un compito tutt’altro che facile, tanto per chi nasce quanto per chi “fa” nascere. «Sarà difficile lasciarti al mondo e tenere un pezzetto per me». Tutto scorre, tutto prosegue, come un eterno «girotondo», in cui tutto può succedere. È questo il senso di ogni vita, unica e singolare, che viene al mondo; è questo il compito che ciascuno di noi ha ricevuto ed è questa la promessa cui si apre chiunque desideri mettere al mondo qualcuno.
Una singolarità da accogliere, da custodire, talvolta da vicino, altre volte da più lontano, in un lungo cammino che nessuno può sapere quanto durerà e cosa ci offrirà, ma che ciascuno è chiamato a percorrere (e a far percorrere) «a modo tuo», con il più grande che continua a guardare al più piccolo, con i due che, nel reciproco «girare», «continuano a ridere», nell’unica gioia della Vita.