Nel testo di Giuseppe Stinca La materia oscura del cuore (Buccino, 2022, Eretica edizioni, 78 pagine), c’è tutto l’animo di un bambino che cerca ancora per le strade della vita «una stella caduta dal cielo per lui», nonostante si sia spesso rattristato per aver trovato sui suoi passi «un’altra carta di caramella che, distratta, stava attorcigliata lungo la via». Forse perché questo bambino – Papa Francesco docet – conserva ancora nel suo animo il dolce ricordo della nonna materna che la sera, «alla luce fioca degli abat-jours con la lampadina a forma di fiamma», faceva spuntare dallo scrigno del proprio cassetto il dono di un Cioccorì o di un Biancorì – tutto per lui.
Non stupisce allora che questo adulto-fanciullo conservi la capacità di cogliere, tra «le pareti sporche di fuliggine e d’indifferenza» della metropolitana di Roma, due giovani che si baciano mentre il mondo gli gira intorno voltando lo sguardo, e desideri comunicarlo, infrangendo il frastuono della vita cittadina che nasconde, come un acufene, i nostri sentimenti dietro l’ovvietà di «un nome ripetuto tante volte da diventare un ronzio».
Non mancano ritorni alla propria terra d’origine, la Penisola sorrentina, dove in riva al mare, dietro un «allucinante specchio di ricordi», prende forma una riflessione teologica sul peccato originale, destinata però a non avere risposta se non quella di infrangere lo specchio, decidersi a vivere e fare un bagno. Una vita, tuttavia, non priva di ricerca, con una mano che tende – nell’ossessione della carezza levinasiana e in un eros platonico-agostiniano – ad un orizzonte degli eventi che pur restando un limite irraggiungibile dà forma e senso a questa “audacia” verso la trascendenza.
La passione dell’autore per la fisica teorica – coltivata con lo sguardo di un insegnante di Religione cattolica – fornisce la metafora fondamentale del testo, con la quale Stinca vorrebbe restituire alcuni frammenti di comprensione di una dinamica paradossale: la materia oscura, che tiene il cuore legato al proprio abisso interiore, e l’energia oscura, che invece spinge nello spazio vuoto fuori di sé, sono la manifestazione di una medesima «debolissima forza che sola è in grado di penetrare tutte le dimensioni e superare l’iperspazio del multiverso: l’Amore».
Ed in fondo è sempre l’Amore a costituire – come direbbe Gesù – la via, la verità e la vita: il desiderio (la mancanza), il cammino (con cadute e deviazioni) e il compimento (ma anche lo smarrimento) di un percorso tormentato che ritrova – filosoficamente – il fondamentale elemento di meraviglia metafisica al culmine del pensiero calcolante, e – teologicamente – la scintilla della santità in fondo all’umanità.
L’autore, infatti, riconosce di vivere le debolezze e le contraddizioni della natura umana, ma senza che ciò gli impedisca di cogliere sulla superfice del mare, «increspata come uno di quei paramenti sacri del Settecento tessuti con piccolissimi fili d’argento», un antico richiamo alla propria fanciullesca devozione mariana. Qui, in un sospiro colmo di particelle di acqua salata, emerge carezzevole dall’«abisso di una creazione incompleta e disordinata» la propria (definitiva?) preghiera: «O Vento, strappami da questa riva e portami in volo con l’alito del mare, trascolora questa carne impastata con le tinte della terra nelle tue meravigliose variazioni di cielo!».