La comunicazione costruttiva

Non si tratta di sostituire le cattive notizie con quelle buone, ma di raccontare le notizie in una prospettiva che aiuti a intravvedere anche le vie di uscita, le possibili soluzioni
27 Maggio 2017

Nel suo messaggio per la 51ᵃ Giornata delle Comunicazioni sociali, che si celebra domani, il Papa denuncia i danni di una comunicazione incentrata sulle cattive notizie e la conseguente necessità di spezzare «il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura». Ed esorta ad «una comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisca una cultura dell’incontro, grazie alla quale si possa imparare a guardare la realtà con consapevole fiducia». Questa parola, “costruttivo”, mi ha colpito, perché ha rilanciato e dato visibilità ad un aggettivo che negli ultimi è spuntato qua e là, soprattutto accanto al sostantivo “informazione”.

Dico subito che non credo nelle “buone notizie”, così come vengono comunemente intese e proposte come alternativa al modo prevalente di fare informazione. Invece condivido le critiche a questo stesso modo, che crea pregiudizi, sfiducia, rancore, divisione nella società e apre la strada alle scelte fatte con la pancia e alle politiche populiste. I motivi per cui ci troviamo a subire un’informazione di questo genere sono molti e non è questo lo spazio per analizzarli, ma certamente almeno uno vale la pena accennarlo: la gente premia questo tipo di informazione, comperando giornali che ogni giorno aprono con titoli che sono dichiarazioni di guerra, guardando in televisione trasmissioni chiaramente razziste e alla fin fine votando chi le spara più grosse e quindi viene poi rilanciato dai soprattetti organi di informazione. Si è sempre dato la colpa delle cattive notizie ai giornalisti, notoriamente cinici e bari, ma il boom dei social network ci ha costretto a confrontarci con il fatto che le cattive notizie fanno decine di migliaia di visualizzazioni e condivisioni, le buone notizie restano appannaggio di pochi – un po’ illusi – abitatori dei territori virtuali. E le bufale sono, in genere, cattive bugie – molto cattive – mascherate da notizie.

Dunque non è solo un problema di giornalisti, i quali peraltro nelle scuole e nei corsi di formazione studiano che l’informazione deve essere watch dog (cane da guardia) del potere, e quindi deve indagare, denunciare, criticare. I problemi ci sono, nella nostra società, e così le emergenze, la corruzione, la negazione dei diritti, il dolore…

Concentrarsi sulle buone notizie significa ignorare tutto questo? È più anestetizzante, per opinioni pubbliche già votate all’indifferenza, continuare a martellare con cattive notizie, o ignorarle per dare spazio a quelle buone? Forse le alternative non sono alternative, perché sono entrambe vere: personalmente, non riesco più a guardare “Report” – per citare una trasmissione seria – o a leggere il “Fatto Quotidiano”, perché vivono solo di denuncia e la denuncia alla lunga scoraggia, rende indifferenti o qualunquisti. Ma non accetterei, come alternativa, un’informazione buonista.

Papa Francesco non cade nel tranello: «non si tratta di promuovere una disinformazione in cui sarebbe ignorato il dramma della sofferenza, né di scadere in un ottimismo ingenuo che non si lascia toccare dallo scandalo del male. Vorrei, al contrario, che tutti cercassimo di oltrepassare quel sentimento di malumore e di rassegnazione che spesso ci afferra, gettandoci nell’apatia, ingenerando paure o l’impressione che al male non si possa porre limite». E quindi, aggiunge il Papa, «vorrei offrire un contributo alla ricerca di uno stile comunicativo aperto e creativo, che non sia mai disposto a concedere al male un ruolo da protagonista, ma cerchi di mettere in luce le possibili soluzioni, ispirando un approccio propositivo e responsabile nelle persone a cui si comunica la notizia».

Forse proprio la parola “costruttivo” può aiutarci a pensare in modo diverso il nostro modo di fare informazione, magari cominciando con l’aprire un dibattito sul significato di questo termine. Che ha cominciato a diffondersi nel 2014, dopo che Ulrik Haagerup, direttore delle news della Danish Broadcasting Corporation, ha pubblicato un libro che si intitolava appunto “Constructive News“. Nel 2016 questa espressione è stata usata dal direttore generale dell’ONU Michael Moeller, durante un incontro organizzato dal National Council for Voluntary Organisation. Proprio in quell’occasione, quindi in un contesto di persone impegnate a rendere migliore la società, ha ricordato che nel mondo ci sono 7 miliardi di persone, che tutte insieme costituiscono una cacofonia di voci spesso mal informate, e che «ad esse dobbiamo offrire alternative costruttive al flusso corrente delle notizie e noi dobbiamo vedere le alternative che ispirano la nostra azione. Il giornalismo costruttivo offre un via per farlo».

Non si tratta, quindi, di sostituire le cattive notizie con quelle buone, ma di raccontare le notizie – cioè i fatti, comunque siano – in una prospettiva che aiuti a intravvedere anche le vie di uscita, le possibili soluzioni. Quelle che certi politici hanno rinunciato a cercare, avendo capito che si raccolgono più voti sfruttando le sirene dei discorsi d’odio e parlando alla pancia, invece che alla mente e ai cuori dei cittadini. Ma che i mondi della solidarietà organizzata continuano invece, faticosamente, a cercare e costruire.

Insomma il giornalismo costruttivo (che qualcuno chiama anche solution journalism) è quello che racconta le storie, belle o brutte che siano, con accuratezza e approfondimento, ma anche con un po’ di spirito di problem solving: non perché siano i giornalisti a dover trovare soluzioni ai problemi sociali, ma perché c’è una società civile, che pensa e agisce cercando queste soluzioni, e ascoltandola i giornalisti potrebbero trovare molte informazioni su come le società potrebbero migliorare o stanno già facendolo.

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