Da tempo sono convinto che oggi la via della bellezza, per raggiungere la vita e il suo senso, sia molto più efficace della via della verità o della bontà. Non si tratta di contrapporle, certo, ma di una accentuazione: il mondo post – moderno che viaggia spedito verso la post – verità e tuona contro il buonismo, accetta ancora di farsi raggiungere dalla vita attraverso la bellezza.
Istintivamente siamo portati a tradurre questo sul piano visivo: le arti maggiormente capaci di suscitare vita e senso sarebbero quelle che fanno appello alla vista. Ma dopo aver letto – con grande emozione, lo confesso – il libro di Chiara Bertoglio, mi sono accorto che oltre la vista c’è, a volte anche di più, l’udito. “Inni alla gioia: storie di musica, di pace, di vita e di speranza” (Effatà editrice 2020) è un testo più unico che raro. Ci restituisce, dal vivo, nel concreto delle storie raccontate, l’efficacia della musica rispetto alla scoperta o riscoperta della vita e del suo senso. Quasi una trentina di storie vissute, da tutte le parti del mondo, che testimoniano tre cose fondamentali.
Innanzitutto che un linguaggio trasversale e universale come la musica è in grado, molto più delle parole e dei concetti, di parlare delle cose davvero essenziali dell’essere umano. Forse perché il nostro cervello è molto più della semplice ragione logica, e forse perché la dove il ragionamento cede il passo al sentire profondo e intenso prodotto dalla bellezza, l’umano ha più possibilità di rivelarsi. Come magistralmente mostra la vicenda della piccola Sara Maria, nipote del grande compositore James MacMillan che, innamorata della musica nonostante si suoi problemi fisici, muore improvvisamente a poco meno di sei anni e spinge il nonno a scrivere queste parole, sulla potenza della musica, per il suo funerale: “abbiamo visto l’estasi guardare negli occhi l’estasi, la tenerezza abbracciare la tenerezza, la devozione costruirsi sulla devozione, la preghiera incontrare la preghiera, colui che ama consolare chi e amato, colui che incanta stupire l’incantato, e il cuore perdersi nel cuore”.
In secondo luogo questo testo fa piazza pulita dell’idea che la musica “alta”, classica, sacra, sia per una “elite” umana soltanto. Le sue vibrazioni, nella loro, classicità, sono in grado di risvegliare ovunque e in chiunque desideri di vita e di bellezza insospettabili. Ad esempio nel famoso carcere di san Quintino, in Texas, dove un concerto di musica gregoriana sortisce l’entusiasmo travolgente dei detenuti che fondano un coro e iniziano ad animare le liturgie, affascinati dalla bellezza del gregoriano. Scrive l’autrice: “Uno dei detenuti più giovani, Matthew, era entusiasta: “E per me come la risposta ad una preghiera, un sogno realizzato”; un altro ha confessato: “Io non vorrei stare qui dentro, ma se devo starci voglio ascoltare musica come questa!”. Anche Dennis, un sessantenne, era profondamente commosso: “Dio era qui”, ha ripetuto più volte.
C’è poi la straordinaria testimonianza, riportata in molte di queste storie, di come la musica sia in grado di coagulare senso e consentire a chi vive nelle più disparate situazioni di degrado e di disumanità, di trovare una direzione su cui muoversi per poter crescere e far crescere l’umano che è in lui. Qui la musica si rivela non più un “accessorio” alla vita, magari bello sì, ma non essenziale. Si rivela invece come l’amore che sa attirare a sé tutte le forze della persona, che seguendo questa “grazia” possono trovare vie di uscita impensabili concettualmente, ma che di fatto vanno rivivere anche là dove la morte ha lasciato il suo tragico marchio. Una tra tante, che mi hanno colpito, è la storia di Paul McAlindin, direttore d’orchestra scozzese che sceglie di partire per l’Iraq a seguito soltanto di un appello, letto distrattamente in un pub di Edimburgo, lanciato su un giornale da un giovane musicista iracheno, Zuhal Sultan, che desiderava formare una orchestra giovanile Iraqena.
La musica muove la vita, la rincorre, la rintraccia, le fa degli agguati insospettabilmente attraenti, la scova la dove si è rifugiata per difendersi. E lo fa proprio dal lato in cui meno di tutti noi occidentali (e razionali!) ci aspetteremmo di trovarla. E se armonia, emozione, sentimento, espressione, fossero solo altri nomi con cui chiamare ciò che noi abbiamo chiamato sempre con nome “verità”?
Grazie infinite per questa recensione che mi onora e mi commuove. Grazie per aver colto il senso profondo di ciò che ho tentato di scrivere!