I cenni danteschi al terremoto ricorrono nella Vita Nova e nelle prime due cantiche della Commedia, ma essi, dietro il caos che l’evento porta, lasciano trasparire una valenza spesso positiva. Eppure il Poeta ebbe in vita certamente esperienza diretta di un terremoto: le cronache, anche nordeuropee tanto vasta ne fu la risonanza, raccontano che il 30 aprile 1279, quando Dante aveva 14 anni, un grave terremoto colpì l’Italia centrale, dall’Appennino umbro-marchigiano fino alla Toscana, provocando gravi danni e numerosi morti.
Nella Vita Nova la descrizione del sogno che annuncia a Dante la prossima morte di Beatrice ha tratti apocalittici:
«vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti» (XXIII 5)
Gli elementi ricordano quelli delle descrizioni evangeliche sulla fine dei tempi (Mt 24,29); ma, considerando il valore che nell’opera giovanile Beatrice assume con la sua morte, viene alla mente soprattutto la morte di Gesù in croce: la terra che trema, la presenza delle donne, il buio su tutta la terra (Mt 27,51-55; Mc 15,38-41; Lc 23,44-49). Il richiamo al Vangelo si rende ancora più evidente dal fatto che in quel momento a Dante sembra che gli angeli «cantassero gloriosamente … Osanna in excelsis» (XXIII 7), il canto che annunciava la venuta di Cristo a Gerusalemme.
Il Poeta usa poi l’immagine del terremoto per descrivere l’effetto suscitato nel fisico e nell’animo dalla “battaglia d’Amore“: Dante descrive nel suo cuore «uno tremoto che fa de’ polsi l’anima partire» (Vn XVI 10 13-14) e parla di un «tremuoto nel cuore» (Vn XXIV 1). Il “tremoto” nella Vita Nova è quindi un segno fondamentale: esso descrive i segni dell’amore e annuncia la salita al cielo di Beatrice.
Nell’Inferno il viaggio nell’aldilà inizia con un terremoto per il quale Dante sviene:
«La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia» (If III 133-136).
Secondo la scienza medievale, in accordo con l’insegnamento dei “Meteorologica” di Aristotele e del “Metereorum liber” di san Tommaso, l’origine dei terremoti veniva attribuita ai vapori che, imprigionati nelle viscere della terra, tendevano a sprigionarsi in un “vento” il quale, non potendo uscire, ne provocava lo scuotimento.
Ma fondamentale per la costruzione del primo regno è la “ruina“, il burrone che lo attraversa da cima a fondo e che Dante descrive più volte. Dopo un discusso accenno nel canto V, è nel cerchio dei violenti che Dante lo paragona a «quella ruina che nel fianco di qua da Trento l’Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco» (If XII 4-6). Il riferimento è alla grande frana che a sud di Trento precipitò sull’Adige, presso i Lavini di Marco a sud di Rovereto, causata, dice, o da un terremoto o da un cedimento. In Inferno esiste questo scoscendimento roccioso che lo stesso Virgilio non aveva visto la prima volta che vi era sceso:
«Or vo’ che sappi che l’altra fiata
Ch’i’discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor» (If XII 32-42)
Virgilio parla di quando in Inferno era sceso colui che tolse a “Dite“, al diavolo, il gran numero delle anime dei giusti (la “gran preda“): in quell’occasione Virgilio, anch’egli nel Limbo (il “cerchio superno“), sentì l’Inferno tremare in modo tale che gli sembrò che l’universo “sentisse amor“, come se provasse una concordia totale. Il discorso del pagano Virgilio rimane approssimativo e oscuro, ma in esso il cristiano Dante riconosce il terremoto che accompagnò la morte di Cristo e la sua discesa agli inferi: sembrava che l’universo fosse in un’unanime concordia perché il terremoto udito in terra alla morte di Cristo fu provato anche dall’Inferno generando quella “ruina“.
Più avanti sarà Malacoda, proprio uno dei diavoli, a spiegare che il ponte di roccia tra le bolge era crollato per un terremoto che aveva scombinato tutto l’Inferno:
«Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei anni
compié che qui la via fu rotta» (If XXI 112-114)
La strada fu rotta 1266 anni e cinque ora prima, quindi nell’anno 34: il terremoto in Inferno porta il segno della discesa negli Inferi di Cristo e allo stesso modo segna l’inizio del viaggio di Dante, che di quella discesa fa memoria.
Se nella prima cantica il terremoto racconta della morte di Cristo, in Purgatorio esso è invece segno di resurrezione. Alla fine del XX canto Dante e Virgilio sentono improvvisamente tremare la montagna:
«io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch’a morte vada. […]
‘Glorïa in excelsis’ tutti ‘Deo’
dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo» (Pg XX 127-129.136-138)
Dante rimane scosso da quest’avvenimento e subito dopo sente intonare un canto. Come dopo il terremoto alla morte di Beatrice aveva sentito intonare “Osanna in excelsis“, ora il canto è il “Gloria in excelsis“: due canti evangelici, il primo risuonante all’entrata a Gerusalemme (Mt 21,9; Mc 11,10), il secondo degli angeli ai pastori Betlemme (Luca 2,14). Sia nella Vita Nova sia nel Purgatorio, al terremoto segue un canto del Vangelo, segno che l’evento porta in sé una valenza non solo terrena ma spirituale: il terremoto non è solo trambusto e caos, ma ha un significato ulteriore.
Nel canto successivo sarà Stazio a chiarire il motivo del terremoto e la spiegazione partirà dalla natura fisica della montagna del Purgatorio (XXI 43-53) che non trema «per vento che ‘n terra si nasconda» (v. 57), come all’inizio dell’Inferno, ma «tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda» (Pg XXI 57-60). Il monte del Purgatorio è scosso da un terremoto ogni volta che un’anima sente di aver compiuto la propria purgazione: quella scossa era per Stazio, pronto ormai a entrare nel Paradiso terrestre, il quale spiega a Dante che è per la sua purificazione che aveva sentito «il tremoto e li pii / spiriti per lo monte render lode a Dio» (Pg XXI 70). La liberazione delle anime dal Purgatorio avviene in forma straordinaria e il terremoto, con il canto del Gloria, ne è il segno evidente, dichiarando l’origine non terrena ma divina dell’avvenimento.
La montagna del Purgatorio quindi subisce terremoti in continuazione, ogniqualvolta un’anima è salvata, ogniqualvolta la morte di Cristo (accompagnata da un terremoto), la sua discesa agli Inferi (che causò il terremoto e la “ruina”) e la sua resurrezione rendono possibile la salita in Paradiso di un anima che altrimenti ne sarebbe rimasta fuori. Se il terremoto in terra è segno di morte, e di ciò ne è testimonianza la Vita Nova, nell’aldilà esso è la traccia di una rinascita: in Inferno della discesa di Cristo che riprende dal Limbo i giusti per portarli in Paradiso, in Purgatorio della completa purificazione di ogni anima che sale in cielo.
Di fronte a un evento così terrificante, del quale il giovane fiorentino aveva fatto esperienza, Dante riesce a vedere una rinascita: il “tremoto” nel cuore alla presenza di Beatrice e quello della montagna del Purgatorio sono il segno di quello che accompagnò la morte di Cristo e testimoniano in entrambi i casi una resurrezione. Senza lo squarcio, la traccia evidente del passaggio di Cristo agli Inferi, non sarebbe stata possibile la salvezza delle anime ed è per questo che in quella ferita Dante riesce a vedere il momento della morte e della Resurrezione; ecco perché, nella sua fantasia, fa accompagnare alla completa purificazione delle anime il terremoto della montagna.
Il “tremoto” del Purgatorio e la “ruina” dell’Inferno sono il segno della salvezza che conduce l’uomo al Paradiso, donata all’uomo dalla morte di Cristo, per la quale «tremò la terra e ‘l ciel s’aperse» (Paradiso VII 48).