In queste settimane, su Netflix, è disponibile il film del regista premio Oscar Sebastian Lelio, Il prodigio, che racconta una storia ambientata nell’Irlanda nel 1862. Il film si apre con una voce fuori campo (si scoprirà poi essere la voce della sorella della piccola Anna, la protagonista) che, con un espediente metateatrale, ci fa entrare negli studios dove il film viene prodotto e ci mette in guardia dai personaggi di questa vicenda che «credono nelle proprie storie con assoluta devozione». E aggiunge: «Non siamo niente senza storie»; dunque, a quale storia accreditare la nostra fiducia?
Sono gli anni della “Grande carestia” in Irlanda: una congiuntura di cause – ambientali, demografiche, e di politica economica inglese – hanno gettato la popolazione nella fame. Ed è proprio dall’Inghilterra che viene chiamata un’infermiera, Elizabeth ‘Lib’ Wright (Florence Pugh), a dare il suo parere su una ragazzina, Anna O’Donnel (Kíla Lord Cassidy), che, a detta della famiglia, fervente cattolica come lei, digiuna da quattro mesi, dal giorno, cioè, della sua prima comunione, e sostiene di vivere solo di manna dal cielo. Anche una suora è incaricata di alternarsi all’infermiera Wright nell’osservazione del prodigio, per stabilirne la realtà miracolosa o meno. Lo prevede una commissione composta da diverse personalità del paese, tra cui il medico, pronto a credere che la piccola abbia scoperto una nuova fonte di sostentamento fino ad allora sconosciuto; gli altri membri della commissione si dividono tra chi ritiene che sia tutta una messinscena della famiglia e chi invece crede al miracolo e alla santità della ragazzina. Attorno ad Anna, si avvicendano i familiari, le due custodi (l’infermiera e la suora), il reverendo e il medico, ma anche i compaesani hanno una propria opinione sulla vicenda, che attira perfino dei giornalisti; tra questi William Byrne (Tom Burke), che conosceva dall’infanzia la famiglia O’Donnel e crede che il digiuno di Anna sia follia. Ciascuno porta con sé una storia di dolore e, a partire da questa, legge e interpreta ciò che accade intorno a sé.
Il film gioca con le atmosfere perturbanti di un’Irlanda cattolica, stremata dalla fame, ansiosa di un riscatto nel presente o nell’aldilà, affascinante nei suoi paesaggi che trasudano mistero e sacralità (anche) pagane, come suggerisce il pozzo sacro attorno a cui ruotano alcune vicende chiave.
Un’oscurità vela i luoghi in cui si svolge la storia, soprattutto gli interni: la locanda dove alloggia l’infermiera Wright, la casa degli O’Donnel, la stanza della ragazzina. Si staglia, invece, per l’azzurro vivace dei suoi abiti e non solo la figura dell’infermiera Lib: «Padre Thaddeus dice che avete chiesto una lampada», dice suor Michael a Elisabeth; «La candela non è abbastanza per osservare e noi dobbiamo essere vigili» è la risposta dell’infermiera che, visitando Anna tutti i giorni, ascoltandola, osservandola, cerca la verità, diradando le ombre. Come dirà Kitty, la sorella di Anna, che lavora nella campagna irlandese, «io tiro su la torba e voi la verità».
Ed è anche grazie alla sua travagliata storia personale che l’infermiera inizia a vedere ciò che inizialmente sfuggiva alla vista dei più, per comodità indotti alla cecità, pronti a confermare sé stessi nella storia a cui credono «con assoluta devozione», fino al fanatismo.
Il film coraggiosamente prende posizione su quanto accade ad Anna O’Donnel (che qui non sveliamo): non ci lascia annaspare nel dubbio tra miracolo e dramma, perché ne traiamo noi le conseguenze; e così anche Lib non solo ha il coraggio di vedere, di cercare, ma ha anche l’audacia di prendere posizione, di assumersi la responsabilità di un’azione, di cambiare la propria storia dando ascolto al suo passato e alla verità che coglie nel presente.
È ancora la voce di Kitty che, fuori campo, chiude il film, leggendo gli articoli del giornalista William Byrne; il quale invita a domandarci, se non sia «questo mondo afflitto e dolente a essere troppo affamato per scorgere» il vero prodigio, che è, dice, il ‘miracolo’ della vita quotidiana e dei suoi bambini ‘comuni’.