Giunge provvidenziale il Vangelo del ‘cieco nato’ in questa domenica di sofferenza, di quarantena, di isolamento. Giunge provvidenziale perché risponde in modo diretto a una domanda che forse abita i nostri cuori e mette alla prova la nostra fede: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?».
Domanda che associa, terribilmente, peccato e malattia, punizione di Dio e sofferenza: se patiamo, è perché Dio punisce. Se abbiamo un paese in ginocchio, un continente alle corde, un mondo in affanno a causa di un virus che falcia vite umane, soprattutto di chi è debole e fragile, allor significa che Dio ha mandato il flagello per punirci a causa dei nostri peccati.
Tremendo pensiero, che si annida nel momento della crisi personale e trova terreno fertile quando la crisi diventa collettiva e il dolore si moltiplica.
Tremendo pensiero, ospitato anche lungo i secoli della nostra storia cristiana.
Tremendo pensiero, alimentato da profeti di sventura capaci di lanciare strali dalle radio, dalle televisioni e delle pagine social, facendo sempre leva sul senso di colpa e sulla paura, e plasmando la propria opinione a idolo a cui sacrificare il dramma che molti vivono.
Ma a una domanda così tagliente, “Chi ha peccato?”, che in questo momento sentiamo come una tentazione viva, risponde in modo chiaro Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori». È il Cristo stesso, «la luce del mondo», che spezza il legame tra punizione e sofferenza: Dio non manda punizioni per il peccato dell’uomo.
Il Dio di Gesù è un Dio che solleva, che perdona, che abbraccia, che ama. Rimane tutto il mistero del male, ma noi sappiamo, perché lo ha rivelato Gesù, che il Padre non è l’autore delle tragedie che possono abbattersi su una vita o sul mondo intero.
E Gesù aggiunge, subito: «è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio». Misteriosa spiegazione, che apre tutto l’abisso del nostro umano vacillare, perché non offre una via d’uscita che potrebbe acquietare le nostre legittime domande.
Gesù sembra dire che anche nel dolore, nella malattia, nella morte può nascere un’occasione, misteriosa e al di là del nostro umano comprendere, affinchè si compia l’opera di Dio. Che è come dire, mi pare, che Dio non ci lascia, che Dio sa trarre il bene anche da un abisso di buio, perché Egli è luce.
Ci disorienta tutto ciò: perché, forse, un Dio che punisce ci farebbe più comodo: sarebbe un Dio da placare, un Dio che in qualche modo possiamo controllare. Sarebbe un Dio così simile a noi, così vicino ai nostri modi di pensare e agire. Sarebbe, in fondo, un Dio frutto dei nostri pensieri, delle nostre paure. Un Dio a nostra immagine e somiglianza.
Pericolo che conosceva bene Mario Luzi, che in Il dio pensato dagli uomini, tratto da Frasi e incisi di un canto salutare (1990) aveva colto la tentazione in cui possiamo cadere nel momento del disorientamento e del timore:
Il dio pensato dagli uomini,
soggetto al paragone
del loro discernimento,
docile ai loro parametri
e alle loro dismisure,
prono ai loro
canonici argomenti:
esistenza o inesistenza,
crudeltà o misericordia
che risibile creatura
della loro presunzione!…»
È vero,
è vero
non fosse che l’amore brucia
talora quel divario, brucia
talora l’umiltà
quell’umana
o divina insufficienza.
Inventa
la creatura, allora,
divinamente il suo creatore.
«E tu
di questo trasecoli,
trasecoli
sempre come me,
mio balbettante simile,
Bernardo o Abelardo che tu sia»
dicono
nella notte che sfolgora,
alta, sulla morte di tutti i dialoghi…
Voci ancora da sotto il portico?
o già nei penetrali dell’anima?
Versi capaci di smascherare le nostre bugie religiose e abbattere i nostri tentativi di legittimare gli dei che ci siamo fabbricati: «il dio pensato dagli uomini» è «docile» ai nostri «parametri», rientra nelle nostre «dismisure». Ma quando Dio si rivela e ciò non accade, come succede ai farisei di fronte al cieco nato, è Dio a sbagliare: ha violato la regola, non ha rispettato il sabato… perché siamo così bravi a non mettere mai in discussione le nostre opinioni su Dio, dal momento che ci fa assai comodo credere in un Dio che ha bisogno delle nostre difese.
Ma, mentre noi ci perdiamo in vani ragionamenti, tra «esistenza o inesistenza, / crudeltà o misericordia», mentre noi facciamo leva su Dio per la nostra «presunzione», Dio si rivela definitivamente in Gesù di Nazareth, poiché «l’amore brucia /talora quel divario». A noi che allarghiamo le distanze, ci viene incontro Gesù di Nazareth, bruciando il divario e ponendoci ancora la domanda: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Non in quello che abbiamo edificato noi, ma in quello che Egli è: liberatore e fuori dalle nostre umane costrizioni.
Che ciascuno di noi possa affermare, come l’uomo che era cieco, «Io credo, Signore!», ma credo in quello che tu sei, quello che il Vangelo ci ha narrato.