Il caso Achille Lauro: tra “orfananza” e salvezza.

In questo Giovedì Santo, mettersi in ascolto delle parole di Achille Lauro significa anche disporsi a lavare i piedi delle solitudini e delle povertà autodistruttive che esse evocano e per le quali invocano salvezza
1 Aprile 2021

Nella prima parte dell’analisi dello ‘scandalo’ sanremese, rappresentato da Achille Lauro, ci eravamo soffermati solo sulle immagini della performance dell’artista romano, lasciando a questa seconda parte il confronto con le sue parole, cantate o recitate.

Ogni sera, infatti, Achille Lauro ha portato in scena una canzone ritenuta significativa della propria carriera artistica, concludendo l’esecuzione con un breve monologo recitato. Dall’inedito Solo noi a C’est la vie, passando per Bam bam twist e le già sanremesi Me ne frego e Rolls Royce, mi sembra che la chiave di lettura ipotizzata al termine del precedente articolo possa trovare conferma.

Il brano Solo noi rappresenta un ritratto generazionale, caratterizzato – con le parole di Papa Francesco – da una orfananza ontologica che li fa sentire una comunità di «soli e sole»: «senza eredità», «senza padri», «senza casa». Un insieme di «ragazzi madri» (questo è il titolo significativo che Achille Lauro ha dato al terzo album), alludendo alla condizione di figli che si ‘crescono’ tra di loro perché i genitori devono lavorare o si sono separati. Un «noi» costantemente «senza»: privo di identità, di grammatica, di anima, di umanità, di dignità. E perciò «senza priorità» e «gravità», «senza autorità». In preda alla «immoralità, bipolarità». Quella che ti priva anche della «libertà» e dell’«amore». E che ti può far sprofondare sotto un sottile senso di rassegnazione: «senza fiori, né una lacrima / non ho scelto come (…) / ma a noi sta bene, sì, così / non ci importa come / non importa siamo qui / ma mi sta bene, sì, così».

Eppure, oltre alla presa d’atto (più che blanda accusa) rivolta ad un «Tu che c’hai fatto così», oltre alla (blandamente) asserita assenza (più che negazione) di «un aldilà» – e dopo un invito al moralista che è in noi di «non chiedermi come» – ecco prorompere un desiderio di «immortalità» e un’invocazione (una preghiera?) più volte ripetuta: «salvami te». Non a caso, nella spoliazione del corrispondente monologo finale, Achille Lauro confessa di essere «un volto coperto dal trucco», «la solitudine nascosta in un costume da palcoscenico», «il velo di mistero sulla vita», la cui «nudità» è rappresentata da una «lacrima che lo rovina», ma anche da una «benedizione» invocata: «Esistere è essere. Essere è diritto di ognuno. Dio benedica chi è».

Anche il teologo Lorizio, pur diplomaticamente concedendo a certo pubblico cattolico che a Sanremo ci siamo trovati di fronte «ai lustrini e agli atteggiamenti eccessivi e al limite del blasfemo», non ha potuto non riconoscere che nella canzone e nel monologo finale di Achille Lauro «l’anelito dell’uomo all’Infinito», «la domanda di senso irrompe e si esprime in un linguaggio ‘metafisico’». L’utilizzo della categoria del senso rischia, forse, di incardinare verso un percorso già predefinito l’esperienza di radicale povertà e insensatezza/disperazione cantata dall’artista romano e, forse, rischia di non mettere sufficientemente l’accento sulla richiesta di salvezza (più che di senso) da lui proveniente. Ciò detto, anche Lorizio coglie questo aspetto soteriologico: «l’uomo è chiamato a custodire l’essere di sé, del mondo e degli altri, persino del Sé di Dio stesso, dalle minacce che lo assalgono e per questo invoca la benedizione»; «l’esistente nella sua solitudine sa di essere ed è – solo come tale senza alcuna certificazione altra – benedetto», ma «l’io abita i meandri più oscuri dell’abisso», per cui non può che giungere l’ora nella quale «invocare la salvezza».

Se poi abbiamo la pazienza di leggere i quasi duemila commenti posti sotto il video della canzone su youtube, troviamo soltanto ringraziamenti rivolti all’autore per questi versi interpretati come piccole perle di una preghiera in grado di infondere forza e coraggio nella solitudine odierna e nelle prove più dure della vita. In definitiva, alla luce delle prime parole di Achille Lauro, i simboli religiosi che nella performance sanremese hanno affiancato e accompagnato la maschera del Glam rock (le lacrime di sangue, il sacro cuore di Gesù e i due angeli) possiamo ragionevolmente sostenere che siano stati usati non solo con un’intenzione positiva ma anche secondo modalità sufficientemente adeguate per significare quanto emerge (ed è confermato) dal testo.

Nella terza serata di venerdì, quella caratterizzata dalla corona di spine sul capo di Fiorello, mentre Achille Lauro impersonava il trasgressivo punk rock, una delle due canzoni portate in scena – Rolls Royce – si chiudeva con un vibrante e ripetuto «Dio ti prego salvaci da questi giorni / tieni da parte un posto / e segnati sti nomi».

A tal riguardo, però, ci domandiamo: duemila anni fa, tra la preghiera nell’orto degli ulivi e la più famosa delle parole dette sulla Croce (quella del Salmo 21), passando per il posto in Paradiso promesso da Gesù al buon ladrone, non avvenne qualcosa di molto simile rispetto a quanto sintetizza mirabilmente il verso dell’artista romano?

In tal senso, un Fiorello che impersona una Madonna addolorata per il figlio crocifisso e non ancora risorto non potrebbe essere la figura adeguata a guardare con amore sofferente un altro figlio: quello che – similmente al più noto figliol (poi) prodigo – intanto ‘se ne frega’ di trasgredire? Ma allora, nel monologo finale, la benedizione divina invocata su «chi se ne frega» non diventa almeno comprensibile, se non condivisibile, quando notiamo che Achille Lauro individua in Francesco d’Assisi e Giovanna d’Arco i simboli della «purezza dell’anticonformismo», del «rifiuto dell’appartenenza ad ogni ideologia», dell’essere «contro l’omologazione del si è sempre fatto così» (frase, peraltro, terribilmente simile a quella usata da Papa Francesco)?

Anche qui, se si volesse avere la pazienza di scorrere la discografia del nostro artista, si troverebbero brani intitolati Dio disse (dove ritorna l’uso della figura – autobiografica? – di Barabba), Scelgo le stelle (dove si chiede se «davvero Dio può perdonare la merda che ho fatto io in questi 10 anni»), Prega per noi (dove chiede «che benedica Dio la vita mia se in fondo sono ancora me»), Dio ricordati e Barabba II (che contengono già il verso citato in Rolls Royce e che meriterebbero un’analisi a parte), così come nell’album in uscita vi sarà un brano intitolato A un passo da Dio. E ci si accorgerebbe che la stessa ‘trovata’ sanremese dei monologhi finali era già stata utilizzata nel primo album (Achille Idol immortal) a chiusura di ogni singolo brano, recitando una breve ma significativa frase: sedici paragrafi conclusi ciascuno con un «amen», provenienti da quello che Achille Lauro chiamava il «vangelo secondo uno stronzo» (riferendosi a sé stesso) – il che non dovrebbe scandalizzarci se ricordiamo l’espressione dal letame nascono i fiori.

Nell’ultima serata, invece, nessun esplicito riferimento a Dio da parte di un Achille Lauro trafitto al ventre (o al costato?) da tre rose piene di spine (e dai pregiudizi della gente). Soltanto quel «Dio benedici Solo Noi, Esseri umani» del monologo finale, che – indicando il Solo noi da cui tutto era partito – ricapitola il percorso compiuto «tutti insieme sulla stessa strada di stelle / di fronte alle porte del Paradiso / tutti con la stessa carne debole». Nella performance, però, avevamo già fatto notare come l’artista si fosse inginocchiato con le mani aperte in atto di ricezione di qualcosa che il testo della canzone (C’est la vie) potrebbe lasciare intendere: un amore che finalmente non sia più «uno zucchero amaro», un «burrone», un «fuoco» in cui – confessa l’artista – «mi sto gettando», «sto cadendo di proposito».

Questa convinzione, secondo la quale «non puoi uccidere l’amore ma l’amore può», ricorre spesso nei testi di Achille Lauro e, infatti, era già emersa nelle serate precedenti: dall’«io che so farmi rovinare da te» di Bam bam twist a questo «amore è panna montata al veleno / ne voglio ancora» di Me ne frego, passando per la domanda tragica cantata in Penelope: «perché si desidera ciò che ci uccide?».

Tutto questo mescolato inevitabilmente (nel secondo monologo) all’esaltazione della «trasgressione» e alla «irriverenza» del «piacere» della «carne» e del «godimento» sessuale, ma facendo attenzione (come Achille Lauro ricorda nel terzo monologo) a non condannare e imprigionare/rinchiudere pregiudizialmente chi è «molto di più» all’interno di «una storia», di «una idea», di «una lettura disattenta, superficiale, banale». Perché il problema, per l’artista romano, è chiaro: come amarsi, come godere amandosi, senza avvelenarsi, senza farsi del male, senza uccidersi? Da qui la richiesta di benedizione non solo per «chi gode», ma anche per gli «incompresi»…

Ed è perlomeno curioso che la richiesta di benedizione rivolta per cinque volte a Dio da parte di Achille Lauro, anticipi e intercetti uno dei temi caldi dell’attuale discussione intra-cattolica. Quando si invoca la benedizione di Dio su chi siamo, su chi gode, su chi è incompreso, su chi se ne frega e su chi è solo, cosa si sta chiedendo a Dio? Un aiuto e una protezione realistici, un profetico riconoscimento e una valorizzazione del bene che c’è e di cui si è capaci (come ricordano il cardinal Schoenborn e Andrea Grillo)? O una (idealistica) approvazione e autorizzazione pubblica e ufficiale (da rifiutare, come pensa la CdF)?

Su questi cortocircuiti esistenziali – che noi insegnanti incontriamo quotidianamente in classe, ma che dovrebbero essere evidenti alla Chiesa di oggi in uscita come a quella di ieri estroversa – la saggezza cristiana avrebbe certamente qualcosa da suggerire al nostro Achille Lauro e a coloro che s’interrogano sulle declinazioni patologiche, ‘tossiche’ del desiderio e dell’amore umano. E, probabilmente, coloro che se ne facessero mediatori troverebbero un orecchio disponibile ad ascoltare parole sapienti, se lo stesso Achille Lauro – nel brano Penelope – canta ripetutamente, rivolto dapprima a una lei ma poi a chiunque voglia, «insegnami com’è, insegnami com’è / insegnamelo».

Quale migliore occasione di ascolto, dialogo e – perché no? – (pre)evangelizzazione? Quale migliore occasione per verificare la nostra capacità di leggere i segni dei tempi (su temi quali l’identità del soggetto, la sessualità, il desiderio, il bene possibile, etc.), in cui già è all’opera – inedita (se non inaudita) – lo Spirito o ci viene incontro – nell’altro – Gesù? Quale migliore occasione per ridire – attualizzata – la tradizione, per raffinare i criteri di legittimità di traduzione della tradizione?

Il teologo Lorizio lo intuisce quando fa notare il suggestivo legame tra la benedizione più provocatoria di Achille Lauro e «il testamento spirituale di Antonio Rosmini, pronunciato dinanzi al suo caro amico Alessandro Manzoni, che gli chiedeva: cosa dunque faremo noi? (ora che ci sta lasciando): – Adorare, tacere, godere! -»; oppure quando afferma che «quella salvezza che invochiamo dall’alto (…) passa attraverso l’incontro con l’amore autentico anche nell’al di qua dell’esistenza».

Lo stesso vescovo Staglianò, noto culture della pop-theology, riprendendo a festival finito questa intuizione, si rivolge ad Achille Lauro (e a Fiorello) con una lunga analisi, ma qui siamo già in quella parte conclusiva della nostra riflessione che vorrebbe fare il punto su come la Chiesa italiana, la comunità ecclesiale italiana ha reagito (o avrebbe potuto reagire) allo ‘scandalo’ rappresentato da Achille Lauro, e dunque ad essa rinviamo.

 

2 risposte a “Il caso Achille Lauro: tra “orfananza” e salvezza.”

  1. Paola Meneghello ha detto:

    In fondo, dietro ad ogni trasgressione c’è una richiesta di senso, perché il “si fa così” forse non soddisfa il proprio desiderio interiore di Verità, ma se non vogliamo che la ribellione, come un fiume in piena, rompa gli argini distruggendo tutto ciò che trova, forse dobbiamo prima fargli spazio, anziché negarla e volerla intrappolare in ciò che è male…perché il Bene è sempre e solo ciò che unisce, e mai ciò che separa; è ciò che cerca la Verità, la ragione nell’altro, e non il suo torto…è ciò che si chiama apertura di Spirito, e non chiusura mentale, credo..

    Da ragazzina sono stata una fan scatenata di Renato Zero, un altro artista che all’epoca dava “scandalo”, ma che finiva i suoi concerti, in tutina di lamè, cantando: “Ma che uomo sei se non hai il Cielo”, ..forse è vero che lo Spirito soffia dove vuole, sta a noi non volerlo rinchiudere, e lasciarsi trovare…

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    La pecora si è smarrita:molte oggi lo sono, giovani che cantano un vuoto, forse cercano di riempirlo, si cimentano in vari modi anche teatrali, cantano la loro infelicita, sembrano non trovare la via da percorrere, forse manca loro la forza o voglia, stanno fermi, o sono in attesa che qualcuno dia una mano, ma poi si lasceranno condurre?le porte delle chiese sono aperte, come mai proprio la non entrano e scelgono altro? Dare una mano allo sfiduciato: ma forse si dichiarano che non è così.che quella è la loro libertà. E’ come la pecora che manca nell’ovile del Pastore, e Lui la va a cercare . (L.15)Gesù accoglie i peccatori, sta con loro. il Santo Padre mi sembra insista molto a fare questo Ma c’è chi concepisce una libertà diversa, uomini dalla dura cervice,che fanno scelte, non credono in certa salvezza. Il Papa parla, invita e apprezzato, ma anche non è creduto, accolta la sua parola;,di seminatori ce ne sono ma anche il seme radica dove trova il terreno Buono.

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