Guardare in faccia il dolore del mondo

Dobbiamo avere il coraggio di sentirci parte del dolore del mondo per poter scorgere una speranza, come ci chiama a fare il Vangelo di questa domenica, in eco con un bellissimo testo di Umberto Saba, "La capra".
29 Marzo 2020

Risuona, nel Vangelo di oggi, una frase che in questi giorni di sofferenza e lutto si trasforma in litania: «Signore, ecco, il tuo amico è malato». Quante volte, nelle corsie degli ospedali, nelle camere delle case di riposo, nelle case e nelle ambulanze sarà salito alle labbra questo umanissimo avviso che è in realtà umanissima supplica: «Signore, ecco, il tuo amico è malato». Signore, quella nonna, quel nonno, quella mamma, quel papà, quell’amico, quel parente, quel collega è malato: Signore, fai qualcosa tu. Pensaci tu, Signore.

C’è un’onda di dolore che si abbatte sul mondo: il Papa ha parlato di «fitte tenebre» che si addensano sui nostri giorni. E chi non subisce la malattia del corpo, vive la preoccupazione per i propri cari, l’ansia per il lavoro, per un’attività che si è fermata, per responsabilità familiari che un futuro incerto potranno forse mettere in crisi; e poi ci sono le fatiche delle lunghe convivenze, gli screzi dovuti a spazi ristretti e tempi sovrapposti, che non sempre portano ad allargare la pazienza.
«Signore, ecco, il tuo amico è malato»: constatazione che sentiamo vicinissima a noi.
Bisogna avere il coraggio di guardarlo tutto questo dolore del mondo.
Bisogna avere il coraggio di penetrarlo, di sentirne il peso, di sentire commozione e pianto per questo dolore del mondo, che è un dolore singolare di vite uniche e insieme dolore dell’umanità.
Dobbiamo provare commozione e pianto come Gesù alla tomba di Lazzaro.

Abbiamo vissuto in una società che ha fatto di tutto per nascondere il dolore, occultare la sofferenza, rimuovere la morte. Abbiamo attraversato una società che poneva in ombra il dolore, anche quando colpiva, perché erano colpi lasciati cadere uno alla volta su individui diversi. Il dolore era circoscritto o, forse, solamente, accantonato, magari per esorcizzarlo. Inciampi di una società lanciata verso un benessere creduto onnipotente ed eterno.
Invece il dolore ha bussato a tanti in una volta sola; ha portato cambiamenti in ogni vita. E così siamo ora costretti a guardarlo in faccia, quel dolore improvviso, come Gesù in viaggio verso Betania. Quel Gesù che non fugge, che non si disinteressa, e che nemmeno compie un facile miracolo a distanza: egli, come gli uomini che incontra, come gli amici a cui tiene, alza lo sguardo sul dolore. Va verso l’amico Lazzaro deposto nella tomba, va a condividere lo strazio e il lutto di Marta e Maria. E piange, ma al tempo stesso apre alla speranza, ricordando che quel dolore va sì assunto in tutto il suo peso, ma che non sarà l’ultima parola sulla nostra vita.
Solo così, capiamo perché Lazzaro può uscire vivo dalla tomba: un Gesù che penetra il dolore senza rimanerne soffocato può accendere la speranza e dimostrare che la pietra sulla vita non è l’atto conclusivo. Profezia della sua croce e della sua resurrezione.

Di tutto il dolore del mondo parlava anche Umberto Saba in una delle poesie più profonde del Novecento, La capra, tratta dal Canzoniere:

Ho parlato a una capra
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perchè il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

In ogni essere può celarsi il dolore, come in una capra lasciata sola, sotto la pioggia, legata e sazia. C’è il mistero del dolore del mondo a cui, dobbiamo ammetterlo, non siamo in grado di dare risposte che plachino le nostre domande.
Siamo parte di un’umanità: in ogni dolore – ci ricorda Saba – si può sentire il dolore di tutti, si sente «ogni altro male», ma al tempo stesso «ogni altra vita».
In questo tempo siamo chiamati a deporre l’egoismo: ogni eco di dolore ci riguarda, perché «quell’uguale belato era fraterno / al mio dolore».

Forse in queste settimane riscopriremo quanto è bello condividere la gioia, ma anche quanto è importante sentire la fraternità nel dolore. Sapendo, per fede, che una tomba può essere aperta, che la vita, misteriosamente, germoglia anche quando sembrano esserci solo tenebre e morte, e che in qualche modo possiamo essere sciolti dalla sofferenza. Se prima avremo avuto il coraggio di guardarla in faccia, allora potremo anche cogliere tutta la forza di un Dio che piange prima di spostare la pietra sul sepolcro, perché torni la luce. Per tutti.

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