La figura di Giuseppe è quasi assente nell’opera di Dante, ma nella Divina Commedia il tema della paternità torna insistentemente in alcuni luoghi che sembrano scaturiti proprio da un passo che ricorda il giusto di Nazareth.
L’unica volta che Dante parla esplicitamente di Giuseppe è nel sonetto “Bicci novel, figliuol di non so cui”, quando rivolgendosi all’amico Forese Donati rileva satiricamente che, essendo il padre di quello putativo, «gli appartien quanto Giosepp’a Cristo» (v. 11), cioè intercorre tra loro lo stesso rapporto di Gesù e Giuseppe.
È questo uno dei quattro casi di rime ‘blasfeme’ nelle opere giovanili dantesche, nelle quali il Poeta fa rimare il nome di Cristo con parole più o meno irriverenti (Antecristo, ipocristo, malacquisto): è stato notato che a questi quattro brani ne corrispondono altrettanti in Paradiso dove invece, a mo’ di ammenda, il nome di Cristo rima per quattro volte solo con se stesso; una serie di rime identiche che nella Divina Commedia non ha eguali, esclusa proprio la parola “ammenda” in Purgatorio XX.
Da parte nostra notiamo come in questi stessi canti ci sia sempre un riferimento alla genitorialità.
In Paradiso XII 70-75 Dante racconta la storia di San Domenico, «l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo» e ricorda i nomi dei suoi genitori: «Oh padre suo veramente Felice! / oh madre sua veramente Giovanna» (vv. 79-80).
In Paradiso XIV 103-108, mentre primeggia il Segno della Croce e si esalta «chi prende sua croce e segue Cristo», i beati acclamano alle parole sulla resurrezione dei corpi, non per se stessi ma «per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari» (vv. 64-65).
In Paradiso XIX 103-108 appena prima di spiegare a Dante che in cielo «non salì mai chi non credette ‘n Cristo» e ciononostante molti cristiani saranno meno vicini a lui «che tal che non conosce Cristo», l’Aquila era stata descritta come una cicogna «c’ha pasciuti… i figli» ed egli «come quel ch’è pasto la rimira» (vv. 92-93), come il figlio sazio grato per quel pasto.
Infine in Paradiso XXXII 82-87 Dante parla dei bambini «sanza battesmo perfetto di Cristo» salvati per merito altrui, perché basta «solamente la fede d’i parenti» (v. 78), solo la fede dei loro genitori.
In questi quattro brani Dante fa ammenda di quelle rime ‘blasfeme’, soprattutto di quella in cui aveva canzonato l’amico Forese, da poco incontrato in Purgatorio, e il padre di quello con il riferimento a Giuseppe, ed è interessante che lo faccia sempre in un contesto di riscoperta dell’importanza della paternità.
Trattando di questioni teologiche e stando attento a far rimare solo con se stesso il nome di Cristo, “che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9), il Poeta ritorna a semplici immagini paterne e genitoriali: egli esalta la felicità di un padre per la santità del figlio, il desiderio di un figlio di rivedere il padre in cielo, la gratitudine per il nutrimento mai mancato sulla tavola e l’importanza di una fede trasmessa già dalla più tenera età.
Tutti tratti che possiamo riconoscere nella paternità di Giuseppe per Gesù e che traspaiono nell’unico luogo della Commedia in cui vi si allude: nella terza cornice degli iracondi, fra gli esempi di mansuetudine, le parole di Maria che cercava Gesù nel Tempio, «Figliuol mio, / perché hai tu così verso noi fatto? / Ecco, dolenti, lo tuo padre e io / ti cercavamo» (Pg XV 89-92; cfr. Luca 2,48-52), includono anche un Giuseppe in pena, felice di ritrovare nel Tempio quel figlio che, certamente anche per merito suo, “cresceva in sapienza, età e grazia”. Tratti di una paternità che ognuno può ritrovare e riconoscere nel proprio padre, il quale, potrebbe ora scrivere un Dante ormai ravveduto, «gli appartien quanto Giosepp’a Cristo».