Non è la magnifica cattedrale di Palermo, dove è sepolto, in una cappella laterale. Né sul corso Vittorio Emanuele, dove la cattedrale si affaccia, quel corso che attraversa il centro storico, che faceva scrivere a Sciascia «soltanto questa via è Palermo», quel corso dove si trova anche il liceo dove insegnò. Ma per sentire il profumo della vita e dell’opera di Pino Puglisi (1937-1993), bisogna congiungere la casa dove abitò gli ultimi anni di vita e dove trovò il martirio – piazza Anita Garibaldi, quel campetto sportivo di fronte (che ora porta il suo nome) —con la sede del Centro Padre Nostro, nel quartiere Brancaccio. Bisogna, forse, fare a piedi, attraversando un sottopasso che è anche simbolico limite, per capire come egli si immerse nella terra di luce e di buio che gli fu data.
È necessario vedere, fare esperienza con i sensi, toccare la modestia di un appartamento all’interno di una palazzina comune, emblema fortissimo di una vita che sceglie di stare al pari di coloro che sono il gregge, e le vie del quartiere che egli attraversò, fondando radici di bene, di legalità, di vita mentre attorno la mafia voleva far crescere frutti di morte. Lì, in quell’arco che congiunge una vita semplice e un impegno estremamente coraggioso, soprattutto educativo, possiamo farci mettere in discussione dalla testimonianza di Pino Puglisi, un sacerdote secondo il quale essere pastore significava, davvero, donare la vita.
Colpisce, al visitatore che varca la soglia della casa, la sobrietà di arredamento, la coperta sul letto, le foto nelle cornici, il tavolo da pranzo, i libri che dicono la passione per lo studio e la lettura, perché ogni impegno implica anche la riflessione e l’uso di ragione. E poi l’azione, che è incarnata, simbolicamente, dal centro Padre Nostro: azione per un futuro migliore, sottraendo proprio al male il futuro, che è costituito dai giovani. Costruzioni possibili se vi è coscienza delle responsabilità che derivano dalle proprie scelte: «Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d’amore. Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio».
«Ho fatto del mio meglio» è speranza e ammissione, fino a giungere, estrema soglia della maturità spirituale e umana, ad accogliere con un sorriso l’assassino che spegne la propria vita; altezza unica, quasi irraggiungibile, se non per chi poggia su una fede solida e su convinzioni profonde. Altezza che confida nella vita eterna e nell’amore che edifica, opponendosi alla violenza e alla minaccia. Altezza di chi considera i margini come parte della tela, fino a renderli il cuore del disegno, in uno scambio tra periferie e centro che molto ha da dire ai nostri progetti ecclesiali e politici.
Così, legando i due poli della Brancaccio di Pino Puglisi potremo interrogarci sulla nostra coerenza di vita, o su quanto la nostra esistenza si spende per il bene, anche a livello civile, o su quanto la pavidità, magari travestita da prudenza, o bloccata dal pessimismo, può attenuare le esigenze del vangelo: «Se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto».