Eccomi, io sono Maria

Uno sguardo delicato e profondo sulla vita di Maria nell’ultima opera di Mariapia Veladiano, «Lei». Una donna diventata nella tradizione e nella riflessione cristiana un nome “collettivo” e che ora l’autrice ci invita a riscoprire
4 Gennaio 2018

Un gatto che inarca la schiena e sembra fuggire, quasi avvertisse la straordinarietà dell’evento, dinanzi all’angelo che irrompe nella stanza, alle spalle di una giovanissima Maria dallo sguardo confuso rivolto in avanti: è la celebre Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto, ripresa, con il particolare del volto, nella copertina di Lei, ultimo lavoro di Mariapia Veladiano pubblicato da Guanda. Lei è naturalmente Maria, la madre del Signore, e il dipinto è forse la migliore introduzione al libro: mostra una giovanissima fanciulla dai tratti comuni, colta nell’ordinarietà

di una giornata qualsiasi; né nobildonna, come spesso appare nelle Annunciazioni, né figura esangue o mistica con gli occhi levati al cielo. Con il disegno e il colore (lo stesso rosso acceso del manto di Dio sulla veste di Maria), Lotto coglie di questa manifestazione lo stupore incredulo di una semplice ragazzina ebrea, di umili origini, posta all’improvviso di fronte al mysterium, al rivelarsi del divino, del sacro, e incapace di coglierne il senso e la portata, tanto da piegarsi in avanti spalancando lo sguardo allo spettatore, non per fuggire, ma in un aprirsi meravigliato al mondo.

La Maria della Veladiano è questa finestra sulla quotidianità di una donna normale, travolta da un destino più grande. Non ci sono accenti epici, né ricorsi forzati all’immaginazione e alla finzione, non si reinventa una storia: non ce n’è bisogno. La bellezza di Maria è quella semplice e schietta della giovinetta dell’Annunciazione del Lotto, si resta sempre aderenti alla vita e alla realtà, senza forzare la fantasia a creare personaggi di fascino, magari, ma incongrui. Sono innumerevoli le vite di Gesù, da Albert Schweitzer in poi, le attualizzazioni dei Vangeli, ma forse finora nessuno sguardo si era posato con tanta delicatezza e rispetto sull’umiltà di Maria.

Umile sì, ma che rivendica per sé stessa una precisa identità, fin dall’incipit del libro, un racconto confessione in prima persona: “Sono una donna corale. Un’opera collettiva senza il nome degli autori segnato in fondo”. E, in effetti, ci sono tante Marie nella storia della chiesa e nella devozione popolare, forse troppe per essere autentiche o cogliere un qualche tratto distintivo vero e profondo. E se è giusto che la teologia abbia fatto il suo corso, addentrandosi nei meandri affascinanti e impervi della rivelazione, c’era altrettanta necessità di riscoprire questa figura nella sua perfetta umanità: perfetta non nel senso di una superiorità morale o di virtù, ma nel suo essere compiutamente donna e madre.

«Facendone un santino gli uomini di chiesa l’hanno di fatto innalzata al di sopra di tutto e resa inaccessibile, con il risultato di lasciare che tutto fosse come prima», osserva Mariapia Veladiano.

Compiutamente umana, in primo luogo, nel non sapere della sua eccezionale maternità se non quello che poteva cogliere poco alla volta dai segni e dalle frasi spezzate del figlio, in una condizione di perenne precarietà: “Affanno di vivere come tutte le altre. E in più il non capire, niente illuminazione, consolazione, altera consapevolezza di essere speciale. Niente”, confessa Maria nel romanzo. Lei è come “appesa alla promessa di un angelo”, vive di stupore e incertezza per qualcosa che la sopravanza, sempre.

Un vivere di meraviglia perché la divinità del figlio non toglie nulla all’incommensurabile dono della maternità: “Ogni vita è Dio che viene. Ogni bambino è Dio. La vita che arriva cambia il mondo. Questa creazione è nelle nostre mani”. La divinità è presente nel luogo di ogni nascita, nello sgorgare di una nuova vita: qui c’è già il miracolo, per la Veladiano, altrettanto grande del Dio che si incarna.

Si stabilisce allora una complicità tra la Madre e il Figlio, entrambi segnati da una volontà più grande e per questo dal mistero della loro solitudine: “Non c’era volo di angeli intorno a lui. Li cercavo nella notte e pensavo che il Bambino aveva solo noi, suo padre era un Dio nascosto. È un tempo in cui Dio ha bisogno di noi”.

In Maria c’è molto di Ildegarda, la protagonista di un precedente romanzo della Veladiano, Il tempo è un dio breve (Einaudi), una donna, fragile e insicura, che trova una risposta al suo angoscioso interrogarsi sul male e sulla morte nel riuscire, alla fine, a consegnarsi fiduciosamente alla vita, liberata dall’ossessione di proteggerla – nel figlio – o di razionalizzarla in una comprensione intellettuale, anzi fuggendo da quei “mondi pieni di parole che non ci avevano salvato dal dolore e dalla paura”.

“C’è una continuità precisa” spiega Veladiano “tra Ildegarda e Maria da un punto di vista femminile. E’ stata forse un’audacia voler assumere la prospettiva di Maria, ma non c’è niente di lei che non potrebbe essere di qualsiasi altra donna. Anche nel rapporto con il divino, Maria deve imparare giorno per giorno a coglierne l’assoluta novità, senza rivelazioni o prodigi speciali. Non è neppure testimone diretta della resurrezione, gliene parlano altre donne, eppure la avverte e la sente necessaria dal di dentro del suo amore materno: capisce che questo amore non può finire, che la vita continua”.

“L’amore vero è sempre un lasciare andare l’altro, un lasciarlo libero”, continua Veladiano, “c’è una teologia che lo afferma anche a proposito della creazione del mondo: Dio si contrae, si auto-limita per fare spazio all’uomo, alla sua libertà. Questa è la strada del Vangelo, l’invito di Gesù a rinnegare se stessi. Ed è l’unico modo per evitare le relazioni fagocitanti, che diventano fatalmente patologiche. Se c’è una cosa sicura della rivelazione è che questo Dio si è consegnato a noi facendosi bambino, che ha avuto bisogno di persone come Maria e Giuseppe che si prendessero cura di lui. O questa lo consideriamo una favola o è una cosa seria, e allora ci dice anche molto a proposito di Dio”. Da questo abbandono nasce, allora, la grazia, frutto di una vita affidata (nel termine c’è fides, fiducia) e ricevuta indietro come dono. E, infatti, “una vita esposta alla grazia” è l’epigrafe che conchiude il romanzo e che fa il pari con l’esclamazione di Ildegarda ne Il tempo è un dio breve: “tutto è Lui”, come il “tutto è grazia” del curato di campagna di Bernanos.

Chiedo ancora a Mariapia Veladiano, che ha conseguito una licenza in teologia all’università Lateranense, che cosa avverte più vicino alla verità: la narrativa o la teologia… “Dobbiamo forse riscoprire la qualità narrativa della teologia”, risponde, ”che non si fa solo con i grandi trattati: i Vangeli, le Lettere di Paolo, l’Apocalisse sono in fondo delle grandi narrazioni su Dio e sull’uomo. La narrativa ha questa facoltà, di lasciare sempre aperta la porta a interpretazioni e risposte successive, senza imporre una lettura definitiva”.

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