Desideriamo qualcuno che torni e ci prenda per mano

Forse mai come quest’anno sentiamo il desiderio di una mano che, avvicinandosi, ci dia vita e calore, prendendosi cura di noi e della pena del mondo. Come accade in una pagina del commissario Montalbano e in una recente canzone dei Boomdabash.
29 Novembre 2020

Sembrano parole dal suono nuovo, quelle che aprono l’Avvento di quest’anno: perché sentiamo forte il desiderio di un ritorno che assume tante sfumature personali e collettive, perché avvertiamo come la promessa di un ritorno, molte volte ascoltata, oggi acquisti un realismo e una concretezza forse mai uditi prima.

Stretti da incertezze e delusioni, lutti e paure, preoccupazioni e ansie, portando sulle spalle mesi di tensioni, disorientamenti, sfiducia, parole, stanchezze, noi abbiamo il desiderio di un ritorno e questo desiderio si chiama speranza: noi speriamo, spesso contro tutte le evidenze, di conoscere finalmente la pace e la serenità, la luce e la fine della pandemia, della crisi economica, dei flagelli che hanno segnato l’umanità e probabilmente anche le nostre singole vite. Sorge in noi la speranza che tornino i contatti tra gli uomini, con tutta la fisicità possibile: abbracci, strette di mano, sorrisi, baci.

Ma noi speriamo anche di più: speriamo che torni il Signore, nel nostro tempo e nelle nostre esistenze; speriamo che faccia finalmente ritorno il Signore della storia, che guarisca e porti a compimento la creazione ferita; che il Cristo torni e vinca il male, la malattia e la morte, che apra il tempo e lo conduca nell’eterno.

Tutte le letture di questa prima domenica di Avvento sono un’invocazione al ritorno di Dio nella vita dei popoli, nella nostre vite e nella storia.

«Ritorna per amore dei tuoi servi» chiede Isaia; «Vedi e visita questa vigna» domanda il salmista; «Aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo» dice Paolo. E il vangelo, nel suo invito alla vigilanza, è anche assicurazione del ritorno «del padrone di casa».

Oggi, noi, uomini del 2020, cosa possiamo sperare? Qualcuno che ci prenda per mano, che ci tiri fuori dal buio, che ci dia sicurezza e tenerezza. Qualcuno che sia Dio, qualcuno che sia un fratello, una sorella. Speriamo che qualcuno si prenda cura di noi.

È un’immagine che mi riporta a una scena de Il giro di boa, uno dei romanzi di Andrea Camilleri dedicato al commissario Montalbano.

Lì, una sera, il commissario assiste allo sbarco di alcuni profughi recuperati in mare dalla Capitaneria di Porto. Un bambino africano, scosso dalla traversata e dai soccorsi, spaventato dal futuro, scappa dalla madre e si rifugia in un vicolo cieco, nell’oscurità, per trovare un apparente protezione:

Ora il commissario aveva perso di vista il picciliddro, ma la direzione che aveva pigliato non lo poteva portare che in un solo posto e quel posto era un loco chiuso, una specie di vicolo cieco tra la parete posteriore del vecchio silos e il muro di recinzione del porto, che non permetteva altre strate di fuitina. Oltretutto lo spazio era ingombro di taniche e buttiglie vacanti, di centinara di cassette rotte di pisci, di almeno dù o tri motori scassati di pescherecci. Difficile cataminarsi in quel cafarnao di giorno, figurarsi alla splapita luce di un lampione! Sicuro che il picciliddro lo stava taliando, se la pigliò fintamente commoda, caminò con lintizza, un pedi leva e l’altro metti, s’addrumò persino una sigaretta. Arrivato all’imbocco di quel vudeddru si fermò e disse a voce vascia e quieta: “Veni ccà, picciliddru, nenti ti fazzu”.

Nisciuna risposta. Ma, attisando le grecchie, al di là della rumorata che arrivava dalla banchina, come una risaccata fatta di vociate, chianti, lamenti, biastemie, colpi di clacson, sirene, sgommate, nitidamente percepì l’ansimo sottile, l’affanno del picciliddro che doviva trovarsi ammucciato a pochi metri.

“Avanti, veni fora, nenti ti fazzu”.

Sentì un fruscio. Veniva da una cascia di ligno proprio davanti a lui. Il picciliddro certamente vi si era raggomitolato darrè. Avrebbe potuto fare un salto e agguantarlo, ma preferì restarsene immobile. Poi vitti lentamente apparire le mano, le vrazza, la testa, il petto. Il resto del corpo restava cummigliato dalla cascia. Il picciliddro stava con le mano in alto, in segno di resa, l’occhi sbarracati dal terrore, ma si sforzava di non chiangiri, di non dimostrare debolezza.

Ma da quale angolo di ‘nfernu viniva – si spiò improvvisamente sconvolto Montalbano – se già alla so età aveva imparato quel terribile gesto delle mano isate che certamente non aviva visto fare nè al cinema nè alla televisione?

Ebbe una pronta risposta, pirchì tutto ‘nzemmula nella so testa ci fu come un lampo, un vero e proprio flash. E dintra a quel lampo, nella so durata, scomparsero la cascia, il vicolo, il porto, Vigàta stessa, tutto scomparse e doppo arricomparse ricomposto nella grannizza e nel bianco e nero di una vecchia fotografia, vista tanti anni prima ma scattata ancora prima, in guerra, avanti che lui nascesse, e che mostrava un picciliddro ebreo, o polacco, con le mano in alto, l’istessi precisi occhi sbarracati, l’istissa pricisa volontà di non mittirisi a chiangiri, mentri un sordato gli puntava contro un fucile.

Il commissario sentì una violenta fitta al petto, un duluri che gli fece ammancari il sciato, scantato serrò le palpebre, li raprì nuovamente. E finalmente ogni cosa tornò alle proporzioni normali, alla luce reale, e il picciliddro non era più ebreo o polacco ma nuovamente un picciliddro nìvuro. Montalbano avanzò di un passo, gli pigliò le mano agghiazzate, le tenne stritte tra le sue. E arristò accussì, aspittanno che tanticchia del suo calore si trasmettesse a quelle dita niche niche. Solo quanno lo sentì principiare a rilassarsi, tenendolo per una mano, fece il primo passo. Il picciliddro lo seguì, affidandosi docilmente a lui.

Che sia il piccolo profugo, che sia il bambino deportato dal ghetto di Varsavia, nella foto simbolo di un secolo – e simbolo di ogni innocente calpestato -, che sia ogni uomo: abbiamo tutti conosciuto il vicolo cieco, il buio, la paura. E abbiamo tutti avuto il desiderio e la speranza che ci fosse qualcuno che, come Montalbano, sapesse avvicinarsi con delicatezza, rassicurandoci e prendendosi cura di noi. Qualcuno che ci tendesse una mano, che trasformasse le nostre braccia alzate per la resa in un appiglio per darci, invece, calore umano, tenerezza, bene. Qualcuno che ci donasse ancora vita.

Abbiamo tutti sentito quel desiderio e, ancora di più, abbiamo sentito di volere che Dio tornasse, ci consolasse, si facesse vicino: senza parole, ma con gesti di amore compassionevole.

È questa la speranza più profonda che abita ogni uomo: una mano che ci conduca fuori dal buio, rassicurandoci, e che tiri fuori dal buio anche la storia dell’universo. Perché se il ritorno è negato, allora tutto è semplice utopia.

In questi giorni ritorna spesso nelle radio una canzone che, in fondo, mi pare sia animata dallo stesso desiderio: è Don’t worry, dei Boomdabash. È un invito alla speranza e alla custodia dell’attesa, contro la pena del mondo, perché «Quando tutta questa sabbia finirà / il sole esploderà come tutte le stelle», alla ricerca di una parola d’amore «che faccia luce quando è sera». È un tempo in cui dobbiamo mantenere la fiducia: «per me la speranza c’è ancora / per me la speranza è questa / sono gli arrivi in aeroporto / i pianti che si fanno a dirotto / confusi tra tristezza e gioia».

Sentiamoci uniti nel desiderio, umanissimo e cristiano, di sentire qualcuno che ci prenda per mano e ci sussurri «Don’t worry»: non preoccuparti, dal buio si può uscire. Qualcuno che sappia rimanere accanto.

Fino a quando risuonerà il «don’t worry» definitivo e universale che renderà nulla la pena del mondo.

 

Una risposta a “Desideriamo qualcuno che torni e ci prenda per mano”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Senza nulla togliere al valore e fama dei racconti camilleriani, però sono troppe le storie di omicidi quasi fanno scuola negativa, visto quanto di cronaca nera leggiamo tutti i giorni. Abbiamo tanto bisogno di essere invece rassicurati, di speranza quella della Parola che arriva da una finestra romana!! La Stampa riporta ” Se il Giappone piange i suicidi delle sue donne”-un numero impressionante in ottobre u.sc. Ora, effettivamente il Covid, ciò che viene imposto ad arginare il contaggio ha raggiunto certa esasperazione nelle persone, tanto da originare ancora di più reazioni che possono dare effetti negativi. C’è davvero bisogno di un aiuto positivo, da ricercare tanto in se stessi da una Fede o affetti costruttivi perché “del diman non v’è certezza” se mai volessimo sperare ancora nel domani. Vorremmo sentirci in qualche modo rinfrancati da parole, atti positivi dall’alto, quasi come descritto è sentito dalle sacre scritture: un essere in attesa,di Chi?di che cosa?

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