Cucire con pazienza per vivere l’attesa

Forse il nostro compito è quello di provare a cucire e ricucire con pazienza, lasciando lo strappo allo Spirito, secondo il Vangelo di oggi, messo in dialogo con un testo della poetessa Antonella Anedda.
1 Dicembre 2019

C’è un senso di strappo che soggiace al Vangelo della prima domenica di Avvento; una sensazione di rottura, di divisione: «due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata».

Nel giorno in cui il tempo concluderà il suo cammino, il cielo scenderà nuovamente sulla terra ma, quasi in contrapposizione, arriverà lo strappo: due uomini saranno divisi, due donne saranno separate.

In fondo, la nostra vita conosce spesso gli strappi. Quale uomo non conosce il lutto, la divisione, la fine di un rapporto personale, l’allontanamento di un volto?

Siamo tessuti che portano squarci e rattoppi, siamo carne suturata e impieghiamo molto tempo per provare a cucire nuovi abiti, costruire nuovi rapporti.

C’è un aspetto che mi colpisce nel vangelo di oggi, che supera il linguaggio apocalittico: per abitare il Regno di Dio è necessario conoscere lo strappo, è necessario che un uomo venga lasciato e uno preso.

La vigilanza che ci è richiesta non è solo quella degli ultimi istanti della storia, ma anche quella che dovrebbe abitare il nostro sguardo quotidiano: vigilare per conoscere la mano dello Spirito negli strappi che agiscono sulle nostre stoffe. Vigiliare per coltivare la fiducia che siamo custoditi e che, forse, il nostro compito potrebbe essere tanto quello di lasciarci strappare, ma anche quello di provare a ricucire, provare a suturare, provare a fare in modo che la divisione non sia la nostra compagna umana, ma sia solo frutto dell’azione dello Spirito.

È Lui che recide, non l’uomo.

È Lui che prende e lascia, non l’uomo.

È Lui che giudica, non l’uomo.

C’è un arte del rammendare che forse dovremmo imparare con più attenzione: rammendare le nostre relazioni, le nostre giornate divise tra mille impegni, il nostro rapporto con Dio, la nostra città così lacerata.

C’è una bella pagina in prosa della poetessa romana Antonella Anedda che mi aiuta nel meditare: è tratta dalla sezione Cucire della raccolta Salva con nome (2012).

Un giorno ho pensato che ci sarebbe voluto tempo, proprio quando mancava il tempo, per cucire lentamente vicino alla finestra.

Quello che avevo scritto poteva stare in un lenzuolo. Poesie, foto, qualche pensiero. Immagino chi ha inventato l’ago. Era vicino al fuoco e di colpo ha visto che l’osso più affilato (come la spina) teneva insieme la pelle. Spina e pelle. Osso. Quello che la morte smembrava poteva essere unito di nuovo.

Da piccola cucivo foglie di castagno tra loro fino a farne corone. Sognavo di fare vestiti completamente verdi appena rigati di nero dalle spine dei ricci. Sopportavo che mi entrassero nelle mani. Le corone erano perfette, ma fragili. Bastava una folata di vento e si decomponevano volando a caso nel castagneto.

C’è una fragilità del nostro cucire umano, perché basta «una folata di vento» e le corone di foglie vanno verso la dispersione. Eppure, quel cucire è un atto di pura umanità, di fiducia: «Quello che la morte smembrava poteva essere unito di nuovo».

Forse, in questo tempo di Avvento, provare a cucire e ricucire con pazienza potrebbe essere un buon modo per attendere.

 

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