Noi due siamo amici del lento, io come il mio libro. Non siamo stati invano filologi, forse lo siamo ancora, maestri cioè della lenta lettura. Adesso non fa parte soltanto delle mie abitudini, ma anche del mio gusto non scrivere più niente, che non conduca alla disperazione ogni genere di gente che “ha fretta”. La filologia infatti è quell’onorevole arte che da colui che la venera esige soprattutto una cosa, trarsi in disparte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento […]. Ma proprio per questo essa è oggi più necessaria che mai, nel cuore di un’epoca del “lavoro”, voglio dire: della fretta, dell’indecente e sudaticcia precipitazione, che vuol dire “sbrigarsela” subito con ogni cosa.
Così scriveva Friedrich Nietzsche al termine della sua Prefazione ad Aurora. Una lentezza feconda, che guida tanto la lettura quanto la scrittura, anche a costo di suscitare la disperazione di quanti sembrano posseduti da una “smania” per lo scrivere, il commentare, oggi diremmo “il postare”. È proprio sui social infatti, specie in queste ultime settimane (dalla morte di papa Francesco all’elezione di Leone XIV), che ho riscontrato questa “ansia di prestazione”, e, caso curioso, soprattutto in coloro che pure, come comunità cristiana, si sentono mossi da un evangelico desiderio “missionario” di abitare i social.
Caso curioso, dico. Non è un mistero, infatti, che la frequentazione dei social da parte dei credenti, per condividere contenuti a carattere religioso, sia iniziata decisamente “in ritardo” rispetto alla nascita dei social stessi. È sempre meglio nutrire un po’ di sospetto e di diffidenza prima di sporcarsi le mani con le novità del momento (salvo poi arrivarci in ritardo: quando inizi a usare Facebook e tutti gli altri sono già su TikTok, perché Facebook ormai è “per i boomer”). Ebbene, questo periodo di incubazione non sembra essere servito a un granché, magari proprio per leggere Nietzsche e apprendere una comunicazione più lenta, ragionata, oserei dire “meditata”. Al contrario, tutti o quasi (teologi e teologhe, credenti, storici, preti, influencer, non conta il “ruolo” che uno ricopre) sembrano invasi dalla frenesia del post, dalla rapidità del commento, dalla subitaneità dell’articolo, perché se passa il giorno, se passa l’attimo, quello che hai da dire non interesserà più a nessuno. Devi essere il primo a dire, a commentare, a smuovere le acque. Tutti hanno paura di essere come la manna: se passa il giorno, marcisce (ma non doveva essere un altro il nostro pane?).
Tutto questo l’ho percepito in modo quasi nauseante proprio in quest’ultimo periodo, leggendo e scorrendo ogni tipo di post. Da quelli che trasudavano cesaropapismo in stile XXI secolo, mischiando la morte del papa col 25 aprile, a quelli di un perbenismo democristiano francamente insopportabile di fronte alla messa in scena di Trump e Zelensky in San Pietro. Dalle testimonianze e i “ricordi” farciti di ipocrisia e qualunquismo alla morte di papa Francesco, ai commenti semplicemente fuori luogo, le biografie first-minute e le recensioni teologiche al magistero di papa Leone XIV a partire dai suoi saluti (altro che teologia rapida! Una vera “teologazione precoce”, che in quanto tale non può che essere alquanto deludente…). L’elenco potrebbe continuare, perché tutto, ogni singola minuzia, è stato oggetto di commento e “riflessione” (servirebbero molte più virgolette!), innalzato “a lingua sciolta” agli altari della più sublime meditazione. Ma non avviene sempre così con i social, dove tutto viene ingigantito e amplificato?
Forse sì, ma fa davvero tenerezza pensare che qualcuno possa pensare che questo modus operandi, anzi, questo modus vivendi, questo “modo di vivere” i social possa anche essere all’altezza di certi contenuti, possa davvero essere costruttivo, fruttuoso, arricchente per qualcuno (salvo l’ego di chi così prende la parola, è ovvio). Detesto il tono paternalistico o facilmente tranchant che sto assumendo, ma mi domando: è davvero necessario abitare il mondo dei social imitandone questo stile frenetico, che finisce spesso col ridicolizzare i contenuti stessi? Pur di esserci, abbiamo deciso di camuffarci anche noi come tutti gli altri, alimentando un uso che ben sappiamo essere nocivo dei social, invece di provare a esserci – certo, questo è necessario – ma con uno stile diverso, una mens diversa, una pazienza e un’attesa diverse. In questo senso forse è utile riprendere il noto adagio che troviamo nella Lettera a Diogneto in cui si afferma che «i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo». Questo non voleva dire essere una élite o una setta. Tutt’altro. Voleva dire essere presenti, addirittura come l’anima nel corpo, ma con discrezione, con amore, potremmo dire con la sapienza della lentezza.
È forse il caso di recuperare questa dimensione anche nel nostro modo di vivere i social, soprattutto se vogliamo essere “evangelici”, se davvero riteniamo di avere qualcosa da dire e che il mondo non può offrire. Certo, è un percorso di ripensamento del linguaggio e dello stile che forse suscita meno popolarità e avviene più “in sordina”, ma alla fine non è anche questo un modo di evangelizzare la cultura? «Il mezzo è il messaggio», diceva McLuhan. Stiamo attenti allora che a usare male il mezzo, in realtà non perdiamo anche il messaggio o, peggio, finiamo col dissolverlo e infine perderlo nello “scorrere della fretta”, perché noi per primi in realtà (per chiudere con lo stesso Nietzsche) non abbiamo avuto «dita e occhi delicati» che fossero davvero in grado di leggerlo e di scriverlo.