«I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale.»
Questa la chiosa della dura risposta che la CEI ha indirizzato il 26 aprile al Presidente del Consiglio, poco dopo le sue indicazioni riguardo la tanto attesa “fase due”. Indicazioni piuttosto deludenti, a dire il vero; e non lo dico solo io, perché il disappunto è ben riscontrabile tanto sui social quanto sui media tradizionali. Ironizza l’Huffinghton post: «incomprensibile che non possano riaprire le chiese che in massima parte sono state costruite per ben altri afflussi di fedeli rispetto ai nostri sentiti tempi». In effetti non riesco a ricordare molte messe così dense di persone da non poter rispettare alcuno standard di sicurezza. Eppure, nonostante i diversi «Orientamenti e Protocolli» proposti al governo dalla CEI (unico ente religioso italiano esplicitamente ringraziato dal Presidente in conferenza stampa), la sola prospettiva paventata è quella di continuare ad «escludere la possibilità di effettuare la Messa con il popolo». I vescovi italiani, dal canto loro, riferendosi all’«esercizio della libertà di culto», hanno posto l’accento sulla necessità di dissetarsi alle sorgenti della fede, perché ci manca quell’acqua che toglie la sete in eterno; lo hanno fatto mettendo al centro la «vita sacramentale», da cui in qualche modo questa chiusura forzata ci allontana.
Ce ne allontana formalmente, perché molti di noi partecipano alla comunione ecclesiale dalle proprie case, senza aver mai interrotto il filo da quando ci siamo lasciati. Don Giuseppe Raciti ci ha da poco fatto notare dalle pagine di questo blog come i laici abbiano dovuto «fare da soli, a casa, riscoprendosi sacerdoti in famiglia, presidenti di celebrazioni domestiche […] mettendo in pratica, di fatto, quel triplice munus sacerdotale, profetico e regale di Cristo cui partecipano tramite il battesimo». Del resto, in moltissimi territori poveri di risorse o di vocazioni sacerdotali questa situazione non è affatto una novità e i laici già da anni si sobbarcano gli oneri della liturgia e della catechesi. Vi dirò che anch’io, tra le mura domestiche, ho riscoperto la liturgia, riuscendo a portare avanti con più partecipazione e convinzione la celebrazione dei riti (la Liturgia delle Ore e la Liturgia della Parola domenicale).
Questa situazione straordinaria ci costringe ad interrogarci perciò sul reale e profondo significato della «vita sacramentale». Ci troviamo in una crisi, in cui è necessario ripensare attivamente a ciò che è esigenza autentica e ciò che è superfluo. La necessità di un discernimento spaventa e preoccupa: cosa è irrinunciabile e cosa non lo è? La messa di domenica 26 identificava due pilastri fondamentali, che sono il confronto profondo, ardente con le Scritture e la fede vissuta nella comunione col prossimo. Siamo in grado noi laici di farci carico delle nostre responsabilità? Quanto arde il nostro cuore davanti alle Scritture? Siamo in grado di “aprire gli occhi” per vedere (e far vivere) i segni del Cristo Risorto? Sappiamo ancora spezzare il pane col prossimo? Dopo anni in cui non ci ponevamo il problema, perché tanto l’onere della catechesi e della liturgia spettava a qualcun altro, adesso i nodi vengono al pettine, e ho la sensazione, leggendo il documento, che la CEI stessa sia piuttosto in apprensione a riguardo.
A proposito di fede vissuta, l’ultima ma non meno importante questione su cui intendo soffermarmi è il riferimento en passant al «servizio verso i poveri». Davvero molte parrocchie si stanno prodigando, sfidando i decreti e trovando il modo di continuare a lavorare rispettando le norme. Delle quattro parrocchie del mio territorio, tuttavia, solo una (che è anche quella che frequento io!) sta continuando il suo operato in questo senso. Senza violare alcuna indicazione ha trovato il modo di coinvolgere i fedeli per continuare ad erogare un servizio indispensabile al territorio, soprattutto in questo momento.
Forse questo è mancato nel discorso del Presidente: le direttive per capire come agire, perché non è possibile continuare semplicemente a non agire. Dall’altro canto, però, è necessario che sia ciascuno di noi a guardarsi allo specchio per capire le sue priorità di vita: questa è un’operazione che nessuno può fare al posto nostro.
Chiudo con la preghiera presa dalle lodi mattutine del 27 aprile: «O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità, perché possano tornare sulla retta via, concedi a tutti coloro che si professano cristiani di respingere ciò che è contrario a questo nome e di seguire ciò che gli è conforme».
Niente tamponi, neppure ai malati,come passare alla fase 2? Obietta un sindaco nel Canavese. Perché non poter accedere ai Sacramenti in Chiese così grandi e mai affollate si protesta.Devo dire che forse è un sacrificio doveroso se si pensa ai morti sepolti sconosciuti, ai malati senza quel tanto di supporto medico che anche salverebbe loro la vita, se fosse messo a dosposizione maggior numero di personale e strumenti.Perche non fare in altro modo per andare incontro a necessità di vicinanza con queste persone e così esercitare anche il servizio a Cristo? Non andava Lui a piedi,entrava nelle case, era al capezzale? C’è un medico che riceve ininterrottamente malati perché si è dotato di ogni vestimento utile a consentirgli di visitare senza rischio di contagio. .Il clero rappresenta Cristo forse oggi gli è chiesto anche uscire, che la Chiesa e fuori le mura oggi , per chi è solo e abbandonato.