Sulla possibilità di un Vaticano III

Perché i motivi che inducono a non aprire un concilio potrebbero essere, in realtà, motivi che spingono a celebrarlo
14 Novembre 2022

Recentemente il teologo Francesco Cosentino, riprendendo alcune parole di Carlo Maria Martini del 1999, si interrogava riguardo alla possibilità di un Concilio Vaticano III, ragionando su alcune questioni aperte – tratte da quanto diceva il cardinale gesuita – che oggi interrogano profondamente il nostro essere cristiani del III millennio, andando a toccare nodi pastorali, morali, dogmatici, ecclesiali, antropologici (la figura del sacerdote, il ruolo della donna, la sessualità, etc…).

Su Vinonuovo rispondeva Gilberto Borghi, il quale riteneva invece che i tempi non fossero maturi.
Sono molto spesso d’accordo con Borghi, ma questa volta devo dire che le sue argomentazioni mi hanno poco convinto poiché a me pare che proprio i motivi che sarebbero alla base di ‘un non-concilio’ siano invece motivi ‘per pensare a un concilio’ — in questo avvicinandomi di più a quanto sostiene Cosentino. Provo a sostare sui due temi che Borghi avanza.

Il primo riguarda il nostro tempo di cambiamento, un vero ‘cambiamento di epoca’, per citare il Papa, mutamento che, per Borghi, non è stato ancora ‘percepito’, figuriamoci se ‘recepito’. Sono sostanzialmente d’accordo con questa lettura: basta dare uno sguardo alla vita ordinaria delle comunità cristiane per renderci conto che, di fatto, nemmeno il cuore del Vaticano II è giunto ai terminali ecclesiali se non in superficie: ruolo dei laici, funzione del clero, presenza femminile, liturgia, vita di preghiera, rapporto con il mondo, prassi penitenziale, vita morale sono solo state scalfite dai grandi documenti degli anni ’60 (la modernità), per cui ancora minore è la ‘percezione’ di quanto è accaduto e sta accadendo negli ultimi 25 anni. In fondo, dice Borghi, è il tempo dell’ascolto e non della ‘sintesi’.

Al contrario, io penso che proprio quanto egli dice ci spinge alla possibilità (se non alla necessità) di una nuova ampia assise conciliare (in parte già preparata dagli ultimi sinodi), così che la Chiesa possa giungere, almeno, a una ‘sintesi parziale’ (come ogni sintesi in fondo è, stante la dinamicità della storia), potendo in tal modo tentare di costruire almeno uno status questionis, e avviarsi poi a passare dai modi di lettura del ‘qui e ora’ ai modi di abitare da cristiani il III millennio. Un Concilio è anche un luogo dove si prende coscienza dello spazio, del tempo, dell’umanità, sotto la guida dello Spirito, in un cammino di unità che è primariamente ermeneutico e solo dopo di azione buona (ortoprassi). Pensare di giungere a un concilio con le sintesi compiute declassa il valore dell’assemblea stessa. Uno sguardo alla storia fa capire bene come anche al Vaticano II le sintesi non fossero pronte (o meglio, gli schemi preparatori vennero poi ampiamente rivisti).

Da qui deriva che il secondo ‘motivo di rinvio’ di cui parla Borghi, per cui i vescovi non sarebbero ancora anagraficamente ‘figli della postmodernità’ e quindi poco capaci di comprenderla, mi spinge, invece, a pensare che sia possibile proprio per questo un Vaticano III: è nel momento dell’assemblea, nell’ascolto, nel dialogo e nel confronto, che possono nascere nuove consapevolezze e nuovi intuizioni in chi non le possiede ancora e pure, cosa decisiva, possono emergere nuove voci; se pensiamo al Vaticano II, sappiamo che vi era un gruppo preparato e audace di teologi e vescovi, con sensibilità, provenienze ed età differenti, che animò l’assise e fu capace, per grazia, di offrire strumenti di lettura, concetti e sintesi evangeliche e di pensiero a padri conciliari che per la maggior parte avevano, in realtà, poca dimestichezza con la modernità (pensiamo alla Nouvelle théologie, in primis). Inoltre, credo che l’anagrafica non sia un dato di per sé dirimente: si possono avere 25 anni ed essere affetti da quell’indietrismo di cui il Papa parla spesso negli ultimi tempi. Non è l’età che fa il pensatore, ma il ragionamento, il coraggio, l’intelligenza, la dimestichezza con lo studio, la ricerca, la vita, il servizio, l’amore alla Chiesa e al Vangelo.

Se, come dice altrove Borghi, ci sono aspetti del Vaticano II non più attuali (sui temi dei laici, dell’ateismo, della natura), quanto converrà aspettare? Le questioni che il cardinal Martini sollevava nel 1999 sono rimaste pressoché le stesse, ma nel frattempo se ne sono aggiunte altre: non solo sessualità e famiglia, ma la ‘questione gender’ e l’omosessualità; non solo il ‘riconoscimento della donne’, ma un pieno spazio che esse devono avere e la decisa ammissione della loro azione concreta, anche nei ministeri ecclesiali; il clericalismo, la funzione e la vita dei sacerdoti; il rapporto tra morale e scienze umane e mediche; un indispensabile approfondimento del ‘sacerdozio universale’; l’ecumenismo; il rapporto tra vescovi e Roma; una rilettura della liturgia e del suo linguaggio; l’evangelizzazione nel XXI secolo; la gestione del potere e dell’economia; una rilettura critica dei movimenti; il rilancio della ricerca teologica in dialettica con il magistero; una rivisitazione della teologia del creato; una rilettura dell’escatologia e della soteriologia; il rispetto delle geografie e delle storie… e così via. Attendere troppo produce quello che, secondo Borghi, è stato il limite del Vaticano II: ragionare di modernità quando essa stava per esaurirsi. Ora, nel tempo accelerato che viviamo, il rischio di arrivare fuori tempo massimo è ancora più vivo.

Forse, negli ultimi anni, sono state spese troppe energie a dar conto della nostra fede non a quanti non la vivono, ma a quanti credono di viverla, loro solo, in modo autentico e fisso, sfiancando un dibattito che è, invece, di grande sterilità. Forse, per questo, è ora di fare sintesi e rilanciare la sequela di Cristo nella storia, a partire da una grande assemblea di vescovi del mondo, a cui si aggiungano religiosi e laici, uomini e donne, fedeli di altre confessioni, pensatori e umanità a servizio della carità: semi del Vaticano II che, forse, attendono un Vaticano III.

4 risposte a “Sulla possibilità di un Vaticano III”

  1. Pino Paliaga ha detto:

    Grazie Sergio Di Benedetto per questo interessante spunto di riflessione.
    I concili spesso sono stati l’occasione di un confronto ampio, di ascoltare voci che hanno risvegliato qualcosa che era dentro l’animo di tanti, ma che non aveva trovato luogo e modo di esprimersi.
    Quindi da questo punto di vista potrebbe essere l’occasione anche per “dare voce allo Spirito”.

    Gli ultimi Sinodi, anche se in modo più circoscritto, hanno svolto un ruolo simile.

    Ma mi chiedo e vi chiedo?
    Basta produrre una sintesi, un documento, su un dei tanti argomenti elencati da Sergio perché si inneschi un cambiamento esperienziale nella Chiesa?

    E’ possibile che oltre ai documenti il Magistero debba offrire altri strumenti esperienziali (e ripeto esperienziali) che facciano “camminare” la Chiesa?

    • Sergio Di Benedetto ha detto:

      Gentile Pino, certo, come dice, non basta un documento, ma esso, credo, può diventare un buon punto di partenza e anche di raccolta, se nasce da esperienze e riflessioni giù maturate.

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Ma guardiamo all’oggi: il comune cittadino e fedele si trova come quello della parabola che se sentiva indegno e umile di fronte a Dio, come primi uomini, Abramo e a seguire, .scelti da Dio per essere uomini di fede. E’ la Fede che oggi sembra essersi diradata, e ciò che vediamo è la solitudine dell’uomo rimasto solo, a guardarsi allo specchio , quando a rimirarsi per quanto ha saputo realizzarsi attraverso le opere. E queste appaiono alle stelle in tutti i campi, compreso il saper e volere distruggerle a prova del suo potere. A guerra quella in atto trova tutti seduti a misurarsi in questo potere in un dialogo ntelleggibile perché non ha da essere conosciuto. La Pace o è un vaso di fiori a decoro mentre tutto lo decide una guerra protratta a decidere del vincitore, il costo di vite umane non muove muove nessuna coscienza. On serve più un Vaticano ter, a un Uomo di fede che nome egli ultimi parli guardando negli occhi uell’uomo dio che la comunità ha posto sull’altare

  3. Pietro Buttiglione ha detto:

    Se …”andando a toccare nodi pastorali, morali, dogmatici, ecclesiali, antropologici (la figura del sacerdote, il ruolo della donna, la sessualità, etc…).”
    Si potesse ridurre a ( estrapolo dal meg):
    – Percepire il cambiamento
    – giungere ad una sintesi parziale..
    – tentare di costruire almeno uno status questionis,
    – passare dai modi di lettura del ‘qui e ora’ ai modi di abitare da cristiani il III si prende coscienza dello spazio, del tempo, dell’umanità, sotto la guida dello Spirito, in un cammino di unità che è primariamente ermeneutico e solo dopo di azione buona (ortoprassi
    – ‘figli della postmodernità’ e quindi poco capaci di comprenderla,
    Consolano le riletture elencate alla fine
    MA BASTA TUTTO QUESTO??
    imo mancano i MEA CULPA, MEA GRANDISSIMA CULPA.
    Bisogna partire da lì.

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