Si vogliono ancora campiscuola parrocchiali “liberi”?

La graduale scomparsa dei "campiscuola" parrocchiali sembra essere legata, in certi contesti ecclesiali, alla difficoltà di conciliare cattolicesimo e libertà...
2 Settembre 2021

Arriva settembre, e pur non volendo cedere alla retorica delle vacanze finite, è innegabile riconoscere un certo cambiamento nell’aria che si accompagna a quella sensazione di “ricomincia la scuola”, che tutti abbiamo come imprinting. A me l’arrivo di settembre suscita un altro ricordo, che è quello dei campiscuola con la parrocchia. In vent’anni di servizio, sono stati più quelli che ho organizzato come animatore che quelli a cui ho partecipato come ragazzo, e credo di poter dire di aver vissuto nel profondo questi momenti, al punto da riconoscerli parte integrante del mio percorso di crescita personale, spirituale e professionale.

Andiamo con ordine. In passato nella mia parrocchia c’era l’abitudine di svolgere esperienze residenziali brevi per i bambini e i ragazzi. Non erano pensate come vacanza ma come strumento formativo. Perciò ci ostinavamo a chiamarle campiscuola, nonostante quei ragazzi e adulti che, odiando la parola scuola e non sapendola contestualizzare al di fuori dell’obbligo didattico, ne storpiavano il nome in tutti i modi: campo chiesa, campo parrocchia, campo estivo… Invece noi vedevamo in quei pochi giorni vissuti insieme una vera e propria scuola di Vangelo, in cui i più grandi si prendevano cura dei più piccoli e tutti si prendevano cura degli spazi comuni. Negli anni migliori ne riuscivamo ad organizzare anche due o tre ogni estate: per gli animatori, per i ragazzi della Pastorale Giovanile e per i ragazzi della Catechesi. Solo quest’ultimo però era considerato il camposcuola, poiché su di esso erano concentrate tutte le energie dell’anno: era così attrattivo che vi partecipavano anche ragazzi solitamente lontani dalla parrocchia e lo stesso valeva per alcuni animatori.

I miei primi campi da ragazzino alla metà degli anni ’90 erano in collaborazione tra due parrocchie (i cui parroci erano amici), così anche gli ultimi che ho organizzato da animatore, dal 2015 al ‘18, sono stati in gemellaggio interparrocchiale: un progetto unico nella nostra diocesi, sviluppato grazie all’impegno degli animatori di due parrocchie, che ci ha resi molto fieri (e di cui prima o poi scriverò).

Cooptato dalle esperienze dell’ACR, a cui i nostri primi animatori si ispiravano, il nostro campo aveva le sue peculiarità, che agli occhi di noi giovani lo facevano apparire migliore di tutti gli altri (a vent’anni si ha gran bisogno di riconoscersi in qualcosa di speciale): si svolgeva a ridosso dell’inizio della scuola, coinvolgeva tutta la catechesi, (8-14 anni, ma ha ospitato anche bambini più piccoli e ragazzi più grandi), aveva regole stringenti e tutti i momenti erano organizzati con attività, divise per età o miste. La cucina bilanciava meticolosamente le entrate e le uscite, perché ci fossero buon cibo e pochi sprechi. C’era una severa lista di ciò che i ragazzi potevano o non potevano portare e le telefonate erano razionate, per garantire un congruo distacco dalla famiglia. Cercavamo un contatto profondo con la spiritualità e ogni attività era inserita in una narrazione più grande, che coinvolgeva tutti i gruppi.

Con il passare del tempo molte cose sono cambiate, rendendo sempre più obsoleto questo tipo di esperienza, fino a farla spegnere del tutto, ben prima del COVID. Da un punto di vista pratico, l’attenzione sempre più stringente e necessaria per le strutture a norma di legge ha fatto alzare i costi, rendendo più difficoltoso far quadrare i conti. Anche le mutate esigenze sociali legate alla condivisione (di cui ho già scritto qui) hanno reso necessario un ripensamento che non c’è mai veramente stato (come ho scritto anche qui). Tuttavia, non erano questi gli ostacoli più grandi che incontravamo, piuttosto la grande diffidenza che alcuni adulti (talvolta compreso il parroco) nutrivano verso l’idea di un camposcuola organizzato così. In effetti, negli anni numerosi aspetti sono stati oggetto di critica: come l’assenza dei genitori, il fatto che i bambini non avessero i telefonini, il periodo sbagliato dell’anno, fasce di età troppo ampie, assenza di catechisti adulti più “ortodossi” e “allineati” di quelli presenti, il fatto che gli animatori non pagavano. Anche le nostre intemperanze giovanili non erano sempre ben viste, talvolta a ragione; ma questi erano solo aspetti marginali perché la divergenza profonda sembrava riguardare la visione della società: il problema, insomma, aveva una vera e propria connotazione politica.

La nostra organizzazione del camposcuola ha sempre mirato ad aiutare i bambini e i ragazzi a costruire un’indipendenza dai propri genitori, e questo faceva paura a molti, perché era un’educazione alla libertà. La gestione del camposcuola, inoltre, pur cercando continuamente un dialogo con le altre attività parrocchiali, manteneva grandi margini di autonomia, e questo forse l’ha resa invisa a certi sacerdoti i quali più di una volta hanno accampato scuse per non partecipare.

Col tempo, molte delle motivazioni fondamentali sono venute meno e non c’è stato più nessuno interessato ad organizzare il camposcuola di settembre, la formazione è scomparsa e i giovani sono andati via. Del resto, un’attività così articolata e complessa richiedeva competenza da un lato, coraggio ed entusiasmo dall’altro. Sarebbe bello però riprendere le fila di quella progettualità: i campi hanno funzionato bene per molti anni e hanno lasciato sempre un buon ricordo in tutti i partecipanti. Adesso forse costerebbe un po’ di più, in termini di risorse economiche e umane. È un investimento che le parrocchie saranno ancora in grado di compiere?

 

6 risposte a “Si vogliono ancora campiscuola parrocchiali “liberi”?”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Ma se un campo scuola utile a completare la formazione educativa, ma anche richiede oneri di costi che non tutte le parti interessate possono far fronte , perché non pensare anche a una reciproca ospitalità tra parrocchie nord-sud, est-ovest, mari,monti, campagna o città?? Conoscersi, scambio ospitalità in amicizia come nella storia è accaduto, una ricchezza in un Paese quale è il nostro, dai mille dialetti, tradizioni,. Anche fare scuola di religione in modo dove là singola persona del bambino,giovane sia fatta centro di cura per la sua crescita educativa, troppo ricorrere al gioco è un ma
    Inteso in quanto il bambino si fa molto più attento se interpellata la sua mente al l’apprendimento e ai sentimenti del cuore. Il bambino di oggi non è diverso da quello di ieri Risponde con partecipe interesse e attenzione viva come da certi affreschi nei chiostri antichi suscita ammirazione i colori e le sacre rappresentazioni,

  2. roberto sogni ha detto:

    faccio fatica a capire questa voglia di trovare per forza “il cattivo” su ogni argomento. credo anche che sia un atteggiamento poco ecclesiale, per nulla sinodale e semplicemente distruttivo. Anch’io ho “amato” i campi-scuola ritenendoli uno strumento di pastorale giovanile straordinario e anche di formazione umana. Ho risonanze straordinarie ancora oggi di mamma e papà che raccontano ai loro figli di quelle esperienze con occhi lucidi. Cosa è cambiato? tanto! Banalmente sono cambiate le leggi che impongono per gestire un campo scuola regole al di sopra delle possibilità di una parrocchia. La stragrande maggioranza delle case sono fuori legge e la gestione pure. Più seriamente siamo di fronte ad una pastorale giovanile di difficile definizione che ha mandato all’aria certezze granitiche come i campi scuola. I preti giovani si sono ridotti notevolmente e i giovani preti lo sono di ordinazione ma non di età… ripeto un altro atteggiamento forse aiuterebbe di più

    • Daniele Gianolla ha detto:

      Identificare un problema non significa necessariamente trovare un cattivo, anche se nella mia esperienza i campi non sono diventati “banalmente” obsoleti, ma proprio osteggiati, più o meno apertamente. Dal mio punto di vista l’educazione alla condivisione è imprescindibile, concordo però che la pastorale giovanile debba ricercare vie nuove. Purtroppo non lo fa: quando mi trovai a discutere con quello che era responsabile PG nella mia città, mi disse che solo il 10% delle nostre parrocchie era in grado di offrire percorsi ai giovani ma non lo presentava come un problema! La società evolve e l’impressione è che siano pochi quelli interessati a starle dietro.

  3. Michelina Cuomo ha detto:

    Una disamina precisa, puntuale e schietta la tua. Ho vissuto per tanti anni l’esperienza con te, con compiti pratici, aiutare in cucina e prima ancora occuparmi con mio marito della spesa, ho avuto modo di apprezzare le finalità dei campi scuola e la loro ricaduta sui ragazzi. Sicuramente momento di crescita per tutti i partecipanti. Personalmente ne sento la mancanza.

  4. gilberto borghi ha detto:

    Grazie Daniele.
    Ineccepibile la tua analisi che ritrovo vera anche nella mia esperienza. Credo però che ci sia anche almeno un’altra causa della quasi sparizione dei campi scuola. Sempre meno i ragazzi e i giovani sono interessati a percorsi formativi. Preferiscono di gran lunga essere invitati ad un evento emozionale o ad una esperienza che che può diventare un evento che li attira e che li provoca. Ho visto cosi sostutire i campi scuola con incontri con situazioni difficili, con testimoni scomodi ma intriganti, con esperienze di servizio a chi è in difficolta. Forse anche questi sarebbero occasiono di formazione se poi si trovasse il modo di rifetterci sopra assieme a loro.

    • Daniele Gianolla ha detto:

      Concordo. Infatti un campo ben organizzato bilancia il piano formativo con quello emotivo… L’emozione è facile da creare, trasformarla in un’esperienza significativa e duratura è compito istituzionale difficile, di cui pochi si fanno carico. Però è così che un campo diventa camposcuola!

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